Per la politica di questi tempi è già difficile farsi capire. La società è polverizzata; l’economia è scossa dai violenti conati della finanza globale, che hanno messo in discussione i rapporti tra capitale e lavoro stabiliti faticosamente nel secolo breve (il XX). Disoccupazione giovanile alle stelle; delocalizzazioni arbitrarie; crisi aziendali all’ordine del giorno; flussi migratori cospicui (e Macron che si attarda sulla distinzione tra migranti politici ed economici); mafie e corruzione che si mangiano importanti fette di sviluppo e di opportunità nella Penisola; scuola e università in affanno.
Insomma: di problemi ne abbiamo a bizzeffe e sono tanto complessi quanto poco la maggior parte dei decisori pubblici è disposta a censirli e ad analizzarli con serietà e a farsi carico di quella complessità. Molti settori della pubblica opinione chiedono messaggi rapidi, concisi, spesso banalizzati.
Bene ha fatto allora Alfredo D’Attorre – il 29 giugno scorso – a manifestare alla Camera dei deputati tutte le sue perplessità al cospetto di una prospettiva di cui, francamente, la grande maggioranza degli italiani non sente alcun bisogno: la riforma dei regolamenti parlamentari.
Che cosa sono?
A dire il vero, sono, nel loro insieme, un fascio di regole molto importanti, scritte e non scritte perché frutto di interpretazione e di prassi, che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento della Camera e del Senato. Lo sanno in pochi ma sono i regolamenti che stabilirebbero se un certo emendamento è ammissibile (per esempio, quello alla “manovrina” sui voucher siamo sicuri lo fosse?); se un certo ostruzionismo è legittimo (ricordate i “canguri” sulla riforma Renzi-Boschi e sull’Italicum?); se un certo voto debba essere indetto palese o segreto (ricordate l’incidente, qualche settimana fa, proprio sulla legge elettorale alla tedesca?). Ecco: i regolamenti parlamentari sono quelle disposizioni che sanciscono il concreto svolgimento dei rapporti politici dentro le Camere. Essi ci dicono che poteri hanno maggioranza e opposizione; che ruolo possono giocare i singoli parlamentari; che accessibilità e trasparenza abbiano il lavori parlamentari per il pubblico.
A guardare più da vicino, allora, i regolamenti parlamentari hanno un valore costituzionale. Già perché se la Costituzione annunzia che le Camere hanno un presidente, sono i regolamenti che ci dicono come i presidenti sono eletti; se la Costituzione stabilisce a grandi linee come si fa una legge, i dettagli sono rimessi ai regolamenti. Se la Costituzione ci narra di un mandato parlamentare libero e incondizionato nell’interesse esclusivo del Paese, sono i regolamenti che ci svelano che poteri effettivi ha il nostro eletto.
Bastino pochi esempi.
Alla Camera, i tempi d’esame di un decreto-legge non sono prefissati (in gergo si dice che non sono contingentabili). Quindi, quando il Governo si prende la responsabilità di adottare un decreto-legge, sa che deve cedere qualcosa nel percorso di conversione all’opposizione o alle varie componenti della maggioranza, altrimenti rischia la decadenza del decreto (salva la ghigliottina che alla Camera non è stata quasi mai messa). Oppure mette la questione di fiducia per stroncare l’ostruzionismo, ma allora paga il logoramento del continuo ricorso a questo strumento. La fiducia si ottiene finché c’è, e Prodi ne sa qualcosa.
Sia alla Camera sia al Senato, ai comportamenti scorretti si rimedia con le sanzioni interne, amministrate dall’Ufficio di Presidenza, il quale decide che cosa è scorretto e come debba essere punito. Ecco quel che è accaduto al gruppo M5Stelle in questa legislatura: a forza di cartelloni, striscioni, invasioni di aule e corridoi, il regolamento è stato applicato nella sua massima estensione punitiva, cioè con l’espulsione dall’Aula e dalla Commissioni. Sicché, a fronte di una Costituzione che sembrerebbe prevedere che chi è eletto fa il deputato e ne esercita le funzioni, per un bel mucchio di giorni (qualche centinaio in totale) i deputati del M5Stelle sono stati deputati solo sulla carta.
In conclusione, i regolamenti parlamentari hanno una stretta connessione con la Costituzione e con tutte le leggi che, con essa, contribuiscono a delineare il nostro sistema istituzionale. Toccare i regolamenti parlamentari nei punti nevralgici (come, per esempio, la contingentabilità dei decreti-legge) significherebbe incidere sul nostro ordinamento, come accadrebbe per la legge elettorale (di qui – peraltro – il collegamento anche tra questa ultima e i regolamenti parlamentari, come giustamente ha sottolineato D’Attorre).
Perché mai riformarli proprio ora? Siamo proprio sicuri che i problemi degli italiani siano di natura istituzionale e non prevalentemente politica, economica e sociale? Il 4 dicembre non ha insegnato nulla?