Nel suo ultimo libro su Giuseppe Dossetti, Paolo Pombeni ha ricordato i contatti col gruppo dei giovani “mulinisti”, in occasione delle elezioni del ’56, quando, al termine di un incontro, l’ex vice segretario della Dc, tra i padri della Costituzione, ebbe a pronunciare queste tre parole: “sceglierei il Pedrazzino”. Fu così che Luigi Pedrazzi, a 29 anni, entrò in Consiglio comunale.
Cofondatore del Mulino con una manciata di altri giovanotti anni Cinquanta: giacche larghe, cervello fino. Cultura europea e spirito “liberal”. Più sociologia, meno liturgia. Voglia di rimescolar le carte. Da Bologna, guardando oltre. Ecco: questo ha “significato” Luigi Pedrazzi. Partecipe della dimensione pastorale della Chiesa, ma sempre con autonomia di giudizio: basta rivisitare la sua esperienza di responsabile dell’inserto “Bologna Sette” di “Avvenire”, anche ai tempi del cardinal Giacomo Biffi.
Insegnante attento ai problemi dell’educazione, già all’inizio degli anni Cinquanta, denuncia: “La scuola senza riforma”. Si lancia in alcune avventure. Come “il Foglio”, fucina di futuri professionisti, non senza pesanti amarezze. Poi, in Comune a Bologna, il “Foglione”. Nel referendum sul divorzio, cattolico “adulto”, è per il “no”. Tra i protagonisti del movimento referendario, alfiere del bipolarismo e di una democrazia governante, dal ’95, per un mandato, a Palazzo d’Accursio, come vice sindaco, incarnazione del motto “mai più Dozza contro Dossetti” (e viceversa).
Insofferente verso le rigide concezioni di partito, è passato tra i vasi di ferro senza far la fine del vaso di coccio. Ideatore di “cittadini in Consiglio”, per una partecipazione autenticamente vissuta. Consapevole che gli “dei accecano coloro che vogliono perdere”, in un suo scritto, prima fotocopiato e distribuito “brevi manu”, poi stampato per i tipi del Mulino, col titolo “L’Ulivocultore bolognese”, nel 1998, scriveva: “A Bologna l’Ulivo non può sbagliare. A Bologna non deve assolutamente perdere”. Così, messo nero su bianco, con un anno di anticipo.
Un esplicito “avviso ai naviganti”: nel presagire quel “clima”, che poi avrebbe portato al trauma della dolorosa sconfitta. Se la città è stata un luogo di “promozione del nuovo”, il professore può essere annoverato tra i suoi più tenaci, convinti, generosi ispiratori. L’Archiginnasio d’oro, nonostante le garbate professioni di modestia, proprio per il valore alto della sua testimonianza, gli è andato a pennello.
Mi capitava di incontrarlo per strada, oppure certi sabato mattina in una latteria vicino a casa sua, con Giorgio Comaschi, Carlo Di Palma e Marco Montanariri. Ricordo con piacere il dibattito con lui promosso dalla “Casa dei pensieri” lo scorso anno: “60 anni fa, il libro bianco di Dossetti”, era sorridente, parlava fitto, rimemorante e convinto, serrato nelle spalle. Abbiamo fatto il Pavaglione sottobraccio, sino a che si è fatto inghiottire dal taxi davanti al bar la Torinese. Ciao, Gigi, sempre e di nuovo, “il Pedrazzino”.