Occorre uscire dalla disperazione. Perché disperata è la condizione di migliaia di lavoratori, famiglie, cittadini tarantini; e disperante è la percezione che accompagna e circonda l’acciaieria e le sue vicende.
Vivere in cassa integrazione, con l’inflazione che cresce, con prospettive meno che incerte, e nubi scure (inquinanti, non solo metaforicamente) sul futuro. Condizione e percezione che sono lo specchio di processi lunghi, di carattere sociale, culturale, politico. Processi di disimpegno industriale, di atomizzazione sociale, di assenza di visione strategica. Processi che durano decenni, non settimane, e nei quali la sinistra, locale e nazionale, è stata ed è tuttora qualcosa in più che semplice spettatrice.
È stata ed è responsabile, se possiamo dirlo, del più grande degli errori: dell’incapacità di capire, studiare, intuire il rapporto tra trasformazioni tecnologiche e trasformazioni sociali. Di immaginare lo sviluppo e di concepire la transizione. Compiti non facili, ma la politica senza visione e senza l’assunzione di grandi responsabilità non serve a nulla.
A ogni salto tecnologico la classi e i modelli sociali mutano e per governare il cambiamento occorrono politiche dinamiche, strutturate e lungimiranti.
Qualcosa di diverso dalla delega alla mano invisibile del mercato che anche il centro-sinistra italiano ha invocato e promosso per molti anni. I cambiamenti tecnologici, l’innovazione, lo sviluppo maturano dentro un processo di mercato capitalistico? Occorre allora affidarli (o lasciarli) in toto alle regole della libera concorrenza, confidando nella sua capacità di autoregolazione. Questa è stata la linea. Ma ad autoregolarsi sono stati più gli investitori privati che i mercati: ci dice questo Taranto, è in questo il suo valore paradigmatico, nel potere e nello spazio regalati a grandi investitori grati a una classe politica dirigente che a sua volta si considera top management dell’azienda Italia. Establishment, élite.
Ma anche l’antipolitica segna il passo. Non funziona l’idea, corroborata dall’indignazione e dalla rabbia, che basti evocare una critica distruttiva e generica. Il mito del distruggere catartico che in questi ultimi anni abbiamo conosciuto in tutte le sue sfumature. L’antipolitica del disilluso, quella dell’impolitico, quella del banalizzatore e quella dell’opportunista. Vi ricordate come Beppe Grillo definiva nel 2017 lo stabilimento di Taranto? «Archeologia industriale» sulle ceneri della quale occorreva costruire «un enorme parco giochi». Mentre il populismo giocava con le parole (e la vita delle persone, il futuro del territorio), proseguiva la triste teoria di manager defenestrati per rendite di posizioni strettamente particolari, vendite straordinarie, irrealistici piani ambientali, ipotetici piani industriali, svariate centinaia di CIG: rattoppi e rammendi senza prospettiva.
Ora siamo di fronte a un bivio. Non si può più sbagliare. Non c’è più tempo.
Noi diciamo due cose. La prima è che Taranto appunto non è un’eccezione, ma è un capitolo di una storia rimossa, quella della dismissione del patrimonio industriale del nostro Paese, accettata come un dato quasi naturale e quindi indiscutibile, insindacabile.
Da una parte la lunga teoria di privatizzazioni e di svendite delle industrie pubbliche, che negli ultimi vent’anni ha smontato pezzo dopo pezzo il patrimonio industriale pubblico regalandolo o cedendolo a prezzi ridicoli a investitori privati. Da Telecom ad Alitalia, da Enel ad Ansaldo, da Eni ad Autostrade.
Dall’altra parte la cessione, all’interno di strategie di mercato guidate dalla vecchia e semplice regola del massimo profitto, di quote significative di controllo di gruppi industriali italiani a società o holding straniere. Quasi sempre queste operazioni, vantaggiose per il capitale italiano che vende, si sono concluse con un ridimensionamento quantitativo della forza lavoro: esuberi, licenziamenti, delocalizzazioni e conseguenti chiusure di stabilimenti e punti vendita.
Dall’altra, ancora, una lunga sequenza di aiuti di Stato frammentaria, disorganica, contraria alle regole europee (art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) ma soprattutto inutile, incapace di mantenere livelli di efficienza e coerenza con le esigenze di bilancio.
Contro questa logica occorre avanzare una proposta alternativa e occorre farlo a partire da Taranto: si tratta di mettere in campo una politica industriale seria, una strategia nazionale in tema industriale, che individui le priorità e determini gli orientamenti, incidendo direttamente anche nella dinamica dell’occupazione. È tema che riguarda il sindacato e la politica perché riguarda la comunità nazionale e dunque lo Stato.
La seconda cosa che diciamo è allora precisa: che l’attenzione dello Stato per Taranto deve tradursi nell’impegno di una responsabilità diretta, in una nazionalizzazione che coniughi transizione ambientale e produzione con i diritti dei lavoratori, quelli oggi in Acciaierie d’Italia, e quelli degli appalti.
Lo Stato salirà al 60% in Acciaierie d’Italia solo nel 2024, restando per i prossimi due anni ancora al 38%. È troppo tardi e troppo poco: spostare di due anni la conclusione del percorso di acquisizione degli impianti non ha alcuna giustificazione e alcun senso e, temiamo, avrà anzi ripercussioni sulla sicurezza degli impianti e sugli investimenti.
Come facciamo a fidarci di un piano industriale che aveva dichiarato che avrebbe prodotto 5,7 milioni di tonnellate di acciaio e che arriva a malapena a 5? E che in un contesto nel quale il gruppo Arcelor Mittal produce nel 2021 il bilancio più positivo di sempre, a Taranto fa lavorare al 50% senza riuscire a costruire alcuna opportunità di rilancio?
Soltanto un’assunzione di responsabilità vera e diretta da parte dello Stato può coniugare le esigenze dell’oggi (mantenere i livelli occupazionali, senza deroghe) e uno scenario a dieci-quindici anni, con il passaggio dal ciclo integrale all’idrogeno, con una transizione accompagnata dall’introduzione dei forni elettrici, fino alla completa sostituzione.
La fabbrica deve rimanere aperta, adeguandosi agli imperativi della decarbonizzazione dentro una prospettiva di rilancio e non di dismissione, dentro un quadro di politica industriale non episodica ma organica, dentro un’iniziativa di uno Stato che dirige, di concerto con i lavoratori, e non delega. Non è semplice. La politica non è semplice, ma ha bisogno di visione. Unico antidoto alla disperazione.