Vi prego, lasciamo fuori i palestinesi da questa campagna elettorale. Non è un incipit qualunquista né un riflesso neosovranista. Non andrei mai sul terreno comodo quanto ipocrita che sussurra in maniera opportunistica: abbiamo già troppi problemi a casa nostra per occuparci dei guai altrui.
Propongo di non parlarne oggi perché è un tema talmente importante da non poter essere abbandonato ai titoli scandalistici di Libero o della Verità e nemmeno – lasciatemelo dire – alla penna di qualche commentatore benpensante che a ogni tornante elettorale fa l’esame del sangue alla sinistra, misurandole il tasso di radicalità per capire se può restare nel salotto buono o se è arrivata l’ora di farla smammare.
Lasciamoli fuori semplicemente perché da anni non sono più dentro la discussione pubblica, non muovono – né tantomeno commuovono – più le classi dirigenti globali che hanno accantonato la questione come se fosse un capriccio irrisolvibile, una vicenda su cui battibeccare tra specialisti e poco più.
Eppure Gerusalemme è ancora attraversata dal soffio potente di una storia che non intende finire, che vede due popoli convivere su un lembo di terra e non trovare mai pace, con il peso enorme di un novecento che non intende passare la mano.
È dentro questo conflitto tra due diritti – quello israeliano a vivere in sicurezza e quello dei palestinesi ad avere un proprio stato – che si dovrebbe animare la discussione e persino la divisione politica, non sugli slogan e sulle semplificazioni. E ammettere che c’è una parte che ancora oggi è nettamente la più debole, il cui diritto sacrosanto all’esistenza è negato nonostante gli accordi internazionali. E che più passano gli anni più lo Stato di Palestina diventa un miraggio, un’ipotesi remota, un assegno postdatato. Semplicemente perché con l’attuale ripartizione del territorio – dove Israele al netto di tutte le risoluzioni internazionali delle Nazioni Unite ha continuato ad allargare a dismisura il territorio occupato attraverso le colonie – non può esistere. Sarebbe a tutti gli effetti la proiezione di una sorta di formaggio gruviera, bucherellato dappertutto e senza alcuna continuità. E uno stato senza confini certi non è tale, è solo una macchia d’inchiostro sulla cartina geografica.
Sappiamo che quella macchia ha un costo enorme di vite umane innanzitutto. E che nonostante tutte le vite abbiano lo stesso costo, ci sono vite che evidentemente valgono meno di altre. Ecco, quanto costa per noi la vita di un bambino palestinese? Come reagiremmo se ci alzassero davanti agli occhi un muro che taglia case, quartieri, terreni e se dovessimo attraversare un check point ogni santo giorno per andare a lavorare o a fare la spesa?
Mi piacerebbe parlare di questo, non dei tweet infelici e sbagliati di un candidato. Soprattutto perché negare l’esistenza di Israele – anche solo per scherzo – non aiuta affatto i palestinesi, ma contribuisce ad affossarli definitivamente.
Ecco, ci sono cose su cui non si può e non si deve scherzare: perché dentro c’è il fiato lungo della storia, non la scossa emotiva della cronaca. Io non saprei mai ridurre il dramma di quella terra in 280 caratteri.
Come si fa a parlare di Israele senza vedere la crescente frammentazione e instabilità della sua democrazia, l’espansione della destra estrema e religiosa e il crollo della sinistra laburista che ne ha fondato lo stato, il ridimensionamento sempre più forte del campo della pace con la conseguenza di una militarizzazione sempre più forte della sua società? Come si fa a parlare di Palestina senza capire che la sconfitta del processo di Oslo ha allargato la faglia politica tra la vecchia nomenclatura dell’OLP – inamovibile e spesso corrotta – e una larga fascia di popolazione che si è rivolta a integralismi pericolosi quanto inaccettabili?
Si è fatto marcire tutto e la paralisi della comunità internazionale – incapace di far rispettare le regole che essa stessa si è data – ha dato un contributo notevole alla radicalizzazione di società già profondamente divise. Trasformando la questione palestinese persino in un grande alibi per i giochi di potere di larga parte del mondo arabo, comprese dittature terribili che da anni danno in pasto ai popoli oppressi l’odio contro Israele, con cui però spesso stipulano accordi floridissimi sottobanco.
Queste verità imporrebbero una rinnovata attenzione della politica italiana alla soluzione di un conflitto che ha visto cimentarsi in passato i principali partiti di governo della Prima Repubblica, ai quali nessuno poteva attribuire particolari allergie antiatlantiste se non addirittura simpatie anti israeliane.
Se fossimo seri riprenderemmo la discussione da dove l’abbiamo lasciata, riproponendo con forza un nuovo negoziato e facendo valere la leva del diritto internazionale: il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, innanzitutto. Non ne abbiamo la forza, almeno non oggi. Siamo diventati un paese tutto sommato provinciale, una mezza potenza declassata, incapace di pensarsi attore globale di dialogo, ponte del confronto interreligioso, strumento europeo di una politica efficace sul Mediterraneo.
Ci limitiamo a discutere delle performance social di giovani candidati. Se questo deve essere, ripeto, lasciamo i palestinesi fuori dal dibattito di queste settimane. Parliamone quando saremo usciti dalla bolla elettorale. Anche il silenzio, a modo suo, è un diritto.