Federico Conte e Stefano Fassina (entrambi del gruppo LeU alla Camera), hanno presentato mercoledì scorso una interrogazione al ministro per il Sud e la coesione territoriale Mara Carfagna, sul tema del regionalismo differenziato e dell’accelerazione che, si legge sulla stampa, si sta dando alla sua attuazione, da parte del ministro Gelmini e dei presidenti di Veneto (Zaia, LegaNord), Lombardia (Fontana, LegaNord), Emilia-Romagna (Bonaccini, Pd) a cui sembra si vogliano aggiungere quelli di Toscana (Giani, Pd) e Piemonte (Cirio, Forza Italia).
Alle dure e precise contestazioni e richieste di chiarimento di Fassina e Conte, Carfagna ha risposto dando sostanzialmente ragione agli interroganti.
Fassina: “La bozza letta sui giornali è inaccettabile perché l’Italia sul piano istituzionale diventerebbe un arlecchino unico al mondo e si determinerebbe di fatto la ‘secessione dei ricchi’. Il Parlamento non può essere spettatore ed è insostenibile il criterio della spesa storica per la suddivisione delle risorse dello Stato”.
Dello Stato, tutto, non delle singole Regioni (risorse regionali che non esistono, aggiungo io, a sottolineare… la sottolineatura che ne ha fatto Fassina con il tono di voce).
“Nel contesto della legge quadro, a nostro avviso sono tre le questioni imprescindibili: la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e la costituzione del fondo perequativo (…); il definitivo abbandono del principio della spesa storica; il pieno coinvolgimento del Parlamento nel processo attuativo” ha detto poi il ministro, che ha continuato: “La determinazione dei Lep (…) è naturalmente inutile se non la colleghiamo alla disponibilità delle risorse necessarie a realizzarli (…). La conservazione anche provvisoria di questo criterio [il riparto secondo la spesa storica, ndr] rischia di perpetuare o addirittura di acuire i divari territoriali. Il prendere o lasciare [riferito al Parlamento, che secondo la bozza potrebbe dire sì o no, senza possibilità di modifica, ndr] non sarebbe un buon viatico, né per le Regioni né per il governo”. E ancora, aprendo uno spiraglio nei confronti dei “secessionisti”: “Questa dell’autonomia è una buona occasione per avviare l’operazione di ricucitura dei diritti e elle opportunità che gli italiani meritano, perché si possono differenziare i poteri assegnati alle regioni, ma non i diritti dei cittadini in base ai territori in cui essi risiedono”
Ebbene, queste affermazioni del ministro hanno permesso a Conte, in sede di replica, di apprezzare il suo intervento. Ma ovviamente non bastano a tranquillizzarci. Specie quando si capisce che, a parte aggiustamenti significativi e indispensabili (sempre che ci si riesca), il disegno di autonomia andrà avanti.
“L’autonomia differenziata, così come delineata dalla bozza del DdL Gelmini, procedendo con i criteri della spesa storica, senza la preventiva definizione di adeguati fabbisogni standard in funzione dei Lep, e senza fondi perequativi, alimenterebbe la divergenza del Mezzogiorno dalle regioni del Centro-Nord: è un insulto politico alle regioni del Sud e uno sfregio insopportabile alle popolazioni meridionali”, ha concluso Conte. Che si è detto non tranquillizzato. Perché è inconcepibile, di fronte a pandemia, crisi economica, crisi mondiale anche a causa della guerra così vicina a noi, proseguire con tale fretta su una questione che modifica profondamente l’assetto istituzionale della Repubblica. In tutto questo si intravede anche un “posizionamento” su fronti opposti delle due ministre di Forza Italia, Gelmini e Carfagna, che si inquadra in un più largo “scontro” all’interno del berlusconismo.
Nel merito, oltre a dover parlare con la collega Gelmini, non solo con dichiarazioni, il ministro Carfagna deve coinvolgere il presidente del consiglio. Tra l’altro, l’affermazione della necessità di trovare risorse impegnerebbe l’intero governo: ne hanno mai parlato? E difatti, se è impensabile ad esempio togliere milioni a Reggio Emilia per gli asili nido per assegnarli a Reggio Calabria (attualmente la dotazione per questa voce è di circa 100 a 1 a favore di Reggio Emilia!), bisogna trovare risorse per Reggio Calabria. E così per tutte le città, per tutte le materie.
Non si è fatta aspettare la replica dei ministri leghisti Giorgetti, Stefani e Garavaglia: “L’autonomia regionale è una richiesta di tutto il paese, ed è destinata a migliorarlo. Per questo è necessario uscire dalla vecchia e anacronistica contrapposizione tra Nord e Sud. Occorre avviare un percorso istituzionale destinato a valorizzare le capacità territoriali e soprattutto la responsabilità degli amministratori. È da anni che se ne parla e occorre dare una risposta anche ai cittadini che lo hanno richiesto attraverso un referendum i cui risultati non possono essere disattesi. Dire poi che la spesa storica avvantaggerebbe solo alcune Regioni è una affermazione priva di fondamento”.
Voglio fare alcune precisazioni. Sui referendum consultivi di Lombardia e Veneto del 2017: in Lombardia è andato a votare il 38% egli elettori (bel risultato!), e con una “indecisione” del Pd: no allo strumento referendum, sì all’oggetto del referendum, da discutere, precisando e migliorando le richieste, e fare andare avanti senza consultazione popolare, che costa parecchi milioni. La CGIL lombarda diede indicazione di voto positivo. In Veneto, invece, la partecipazione fu alta, il 57%, e il Pd scelse di indicare un “sì critico” (testuale!). (L’ex sindaco di Padova, il Pd Ivo Rossi, che ho incrociato in una Agorà su temi di tassazione, efficienza servizi, regionalismo differenziato eccetera, mi ha detto che lui era contrario a questa scelta, e, testuale, mi ha retoricamente chiesto “Ma che c. significa un “sì critico”? )
Non ci credete? È così. E del resto, la deputata veneta Pd Alessia Rotta, allora vicecapogruppo alla Camera, non una qualunque, attaccava Zaia da destra: “Quando avremo l’autonomia? Zaia parlava del 90% delle tasse che si pagano nel Veneto da lasciare in Veneto, ora non ne parla più…”.
La “richiesta di tutto il paese”, fortunatamente, è una invenzione bugiarda e maldestra dei tre ministri; ridicola, infine, se non fosse pericolosa, l’affermazione che la spesa storica non avvantaggerebbe alcune regioni (e non danneggerebbe pesantemente altre, come invece purtroppo accade ed accadrebbe ancora di più).
Si può fare qualcosa? Sì. Una cosa ad esempio è la presentazione (ieri al Senato, il 24 alla Camera, il 30 a Napoli) di una proposta di legge di iniziativa popolare, preparata da Massimo Villone e altri costituzionalisti, appoggiata da molte personalità e studiosi (anche dal sottoscritto), con cui si propone la modifica dell’articolo 116 comma 3 e dell’articolo 117 della Costituzione, mettendo paletti e chiarendo le cose. Ad esempio, che la potestà resti in capo al Parlamento, che può approvare con modifiche l’accordo eventualmente intercorso tra lo Stato e la Regione richiedente autonomia; che tale legge, una volta approvata, possa essere sottoposta a referendum confermativo entro tre mesi dalla sua promulgazione; che possa poi eventualmente essere sottoposta a referendum abrogativo; che si fissino i Livelli Uniformi delle Prestazioni (i LEP, livelli essenziali, sono garanzia per mettere un freno, per rallentare l’aumentare delle disuguaglianze tra territori, non certo per colmare il gap!) infine, che lo Stato, oltre a quelle elencate nel comma 3 dell’articolo 117, abbia legislazione esclusiva anche su: tutela della salute e servizio sanitario nazionale; tutela e sicurezza del lavoro; scuola, università, ricerca scientifica e tecnologica; reti nazionali e interregionali di trasporto e di navigazione; porti e aeroporti civili di rilievo nazionale e interregionale; reti e ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale e interregionale dell’energia; previdenza sociale, previdenza complementare e integrativa.
Così si può cominciare a ragionare!
Sembra inutile una tale proposta, per via della praticamente mai applicata possibilità di legge di iniziativa popolare prevista dall’articolo 71 della Costituzione? Due questioni importanti modificano il giudizio negativo su tale possibilità. Prima: la modifica del regolamento del Senato, che dal 2017 prevede l’obbligo, entro tempi fissati, dell’esame della proposta di iniziativa popolare (poi può essere bocciata, può essere oggetto di tattiche dilatorie, ma va comunque discussa dal Senato). Seconda: la raccolta delle firme può avvenire anche utilizzando la firma digitale, cosa che certamente, anche se non decisiva, aiuta la raccolta delle firme per la presentazione. Si è già avuto un esempio di legge di iniziativa popolare, presentata, discussa e approvata (inserimento, nell’articolo 119 della Costituzione, del concetto di insularità…)
E le forze politiche? E Articolo Uno? Innanzitutto, non mollare la presa (Federico Conte, ad esempio, insieme con Fassina, coordinati dal capogruppo Federico Fornaro, è uno di quelli che su questo tema si sta dando molto da fare, con iniziative pubbliche, con interrogazioni ed interventi alla Camera). Poi, ancora. Lo penso, l’ho detto, l’ho scritto, lo abbiamo diffuso attraverso varie note e comunicati, bisogna che si coinvolga il presidente del Consiglio; il ministro Speranza e i dirigenti politici nazionali, chiedano conto a Draghi di cosa vuol fare: assecondare le pulsioni secessioniste della Lega (e, ahimé, per svariate ragioni, di quasi tutti i partiti e corpi intermedi del nord!), o cercare, attraverso l’irripetibile occasione del NGEU, e con il nostro Pnrr, di colmare i divari Sud-Nord, e cominciare a fare del Mezzogiorno quella seconda locomotiva del Paese, indispensabile (ché la sola locomotiva del Nord, lo abbiamo visto, è del tutto inadeguata, e ha perso contatto con le economie dei paesi più forti) perché l’Italia, tutta, possa “correre” al pari dei più forti paesi europei, in termini di sviluppo economico, occupazione, diritti sociali e civili, ambiente, energia, eccetera?
Infine, appoggiare e “sfruttare” la giusta opposizione di tanti sindaci, del Sud ma anche del Nord, che denunciano il rischio di un neo-centralismo regionale, che sostituisca quello “romano” per così dire, che non aiuterebbe in nessun modo il decentramento e le autonomie locali. E ripensare al ruolo delle Regioni, che devono (se ne può discutere, non si chiede certo che ciò accada nel giro di mesi) tornare ad essere quello a cui si era pensato in partenza, Enti di programmazione e NON di gestione! (In una tale situazione, credo che la corsa alla richiesta di maggiore autonomia si fermerebbe subito, venendo meno il carburante che spinge questa “oscena” richiesta: la gestione dei soldi!)
Concludendo, parafrasando e ribaltando il concetto del professor Tabellini, economista bocconiano, che ha pubblicamente sostenuto e scritto che per far “correre” Milano, si deve “fermare” Napoli, solo se Napoli “corre” , Milano riuscirà a “correre”, trascinandosi, Milano e Napoli insieme (epigoni di due aree economico-geografico-politiche del Paese), l’Italia tutta.