Un colloquio
Il gusto dell’approfondimento critico e lo sguardo rivolto alle più aggiornate tendenze in atto. La crisi considerata non solo per i suoi effetti materiali, anche per le sue implicazioni valoriali. A partire dalla globalizzazione e dalle sue distorsioni: senza toni apologetici o demonizzanti, per una maggiore capacità di governo. L’ultimo libro di Romano Prodi (Il piano inclinato, Bologna, il Mulino, 2017), nella forma di una conversazione con Giulio Santagata e Luigi Scarola, restituisce il tono riflessivo, ma preoccupato, unito ad una pronuncia chiara nei giudizi, a volte sferzanti. Secondo una sintesi dello stesso Romano Prodi: essere miti non significa rinunciare a principi forti.
La cabala
Nelle parti dedicate alla società in trasformazione si avverte il contributo della moglie Flavia Franzoni, alla quale il libro è dedicato, esperta di welfare e impegnata, oltre che nello studio, nella progettazione di innovazioni nel campo dei servizi alla persona; nel 2005, tra l’altro, hanno scritto Insieme (Edizioni San Paolo). Gioca un ruolo la cabala dei numeri. Romano Prodi due volte presidente del Consiglio dei ministri (ai sensi della Costituzione, art. 92, si dovrebbe dir così, invece che premier); non senza una singolare corrispondenza temporale: 1996-1998 e 2006-2008.
Una terza fase?
Alla vigilia della prima stagione, nel 1995, uscì L’Italia che vogliamo (per Donzelli). Alla vigilia della seconda, nel 2006, Ci sarà un’Italia. Dialogo sulle elezioni più importanti per la democrazia italiana (con Furio Colombo; per Feltrinelli). Forse questo nuovo libro prelude a una nuova fase? Romano Prodi professa il suo distacco dall’agone politico, esprimendo, tuttavia, il proposito di fornire un contributo di idee e di proposte. Non sono molte le personalità, dotate di esperienze istituzionali di vertice, dalla presidenza della Commissione europea all’incarico Onu per le missioni di Peace Keeping in Africa, che godano di una vasta credibilità internazionale come la sua.
Visione
Qualcuno ha parlato di un manifesto. Altri di un programma di governo. Non è escluso, in vista del rinnovo della legislatura, a questo punto nel rispetto della scadenza naturale, che siano qui contenute alcune indicazioni programmatiche da riprendere e sviluppare. Insistito il richiamo all’esigenza di una visione, di un respiro strategico, restituendo all’opinione pubblica non solo promesse, anche un briciolo di verità. Non c’è cambiamento che non parta dalla comprensione dei problemi; ma prima bisogna conoscerli. Se c’è qualcosa di cui si avverte l’urgenza, in relazione all’impoverimento del confronto pubblico degli ultimi anni, è qui. Gli hashtag possono essere divertenti; solo, non bastano. Oltre ai social network occorrono reti di interconnessione con la società e con il pensiero critico: è così che si produce nuova cultura politica.
Al centro, il lavoro
Il cuore del libro nella questione sociale. Il ragionamento di fondo si può riassumere così. Al centro, il lavoro, soprattutto di fronte a una disoccupazione che va aggravandosi. Potrebbe accadere che l’uscita dalla crisi non comporti un incremento dell’occupazione ma, al contrario, altra perdita di posti di lavoro. Tra “processi di innovazione tecnologica” e “mercato del lavoro” si accentua il rischio di una “frattura” (p. 28). Dobbiamo attrezzarci con politiche pubbliche a favore degli investimenti produttivi, per finanziare i quali è indispensabile una maggiore giustizia in campo fiscale per promuovere la ricerca di soluzioni a sostegno della crescita.
Giustizia fiscale
Senza timore di affrontare i nodi veri. A partire dal rapporto tra progressività e redistribuzione. In occasione della presentazione all’Archiginnasio di Bologna, lo scorso 6 giugno, insieme al giornalista Luciano Nigro e a due giovani ricercatori, Michela Boldrini e Nicola Pedrazzi, Romano Prodi ha avuto modo di esprimersi così: “Ormai è assodato che chi parla di tasse perde le elezioni. Tanto che un po’ tutti promettono di abbassarle”. Con un’amara constatazione: “Il vero dramma della democrazia è essere obbligati a dire bugie per guadagnare voti”.
Analisi e proposte
Il libro è un fitto intarsio di analisi e di proposte. Proviamo a orientarci. Innanzitutto: “L’idea che dopo di noi le cose andranno meglio è al tramonto” (p. 11). Perché: “L’ascensore sociale si è fermato in tutto l’Occidente” (ivi). Non solo in Europa, “su entrambe le sponde dell’Atlantico” (p. 15). Contestualmente, nel nostro Paese, sono andate accentuandosi le disparità: “Il patrimonio del 5% più ricco della popolazione italiana è pari al 30% del totale, mentre il 30% più povero ne possiede meno dell’1%” (p. 122). Ma non si tratta di un fenomeno esclusivamente italiano.
La natura della crisi
La linea continua e ascendente dello sviluppo si è incrinata. Si pensi al rapporto tra studio e lavoro. Fino a qualche tempo fa – ha osservato Romano Prodi – più una persona accumulava anni di studio, più la remunerazione nella vita li rendeva convenienti. Ora non è più così. Il premio che viene dato allo studio non è più tale da compensare i sacrifici fatti. Con alcune conseguenze. La prima: “Ci troviamo di fronte a una generale crisi del sistema economico nel quale viviamo” (p. 12). La seconda: le classi meno favorite cercano protezione, pensando di trovarla nella nuova destra sovranista: “I metalmeccanici del Michigan si affidano a Donald Trump e la Brexit non è stata votata dalla parte opulenta della City ma dagli operai e dai pensionati delle periferie e dei centri minori” (p. 13). Anche per questo “la lotta contro la povertà estrema” diventa “obiettivo di una politica economica equa” (p. 20).
La differenza salariale
Tre le parole-chiave: globalizzazione, tecnologia, finanza. Qui un punto di debolezza della politica, la quale non si è resa conto che la mancata gestione di questi tre aspetti, così intrecciati tra loro, “ha comportato un continuo trasferimento di denaro da chi ha una elevata propensione alla spesa e all’investimento a chi ha una più elevata propensione al risparmio” (p. 23). A questo punto Prodi racconta un episodio: “Quando, quasi quarant’anni fa, dopo l’analisi dei conti di un’impresa italiana, scrissi sul ‘Corriere della Sera’ che la differenza salariale di trenta volte tra il direttore dell’impresa stessa e l’operaio di linea mi sembrava eccessiva, ricevetti una vera ondata di lettere di approvazione. Oggi una differenza di trecento volte è ritenuta normale” (p. 25).
Il contrasto all’evasione
Quindi i problemi dell’Italia. In particolare, l’evasione fiscale. Superiore a 110 miliardi di euro l’anno. Prodi ricorda un altro episodio. “Quanto sia importante la ‘costanza’ della lotta all’evasione emerge anche da un ricordo della mia personale esperienza quando nel 1996, pochi mesi dopo l’insediamento del mio primo governo, venne da me il ministro Vincenzo Visco, sorpreso di un imprevisto aumento delle entrate tributarie quando ancora non avevamo preso alcuna decisione in materia. La spiegazione derivava dal semplice fatto che i contribuenti in quel momento pensavano che il governo non solo ‘faceva sul serio’ ma che sarebbe anche durato a lungo. L’aumento inatteso degli introiti fiscali non ha avuto, nel caso ricordato, il tempo di consolidarsi, ma ha messo in rilievo che l’efficienza amministrativa e il messaggio di una volontà politica proiettata nel tempo lungo sono gli elementi essenziali della lotta all’evasione. Per questo motivo anche le variazioni nell’uso del contante diventano un messaggio politico di importanza fondamentale, al di là dell’efficacia immediata dello strumento” (p. 48).
Posizioni di coda
Poi la fragilità strutturale del sistema: “Nelle manifatture, infatti, pur con i limiti esposti in precedenza, ce la caviamo. Nei servizi (soprattutto in quelli raffinati come i servizi legali, finanziari o di consulenza aziendale, che hanno un mercato internazionale) è un vero disastro” (p. 55). Dispiace ripeterlo ma ciò comporta “il fatto che ci troviamo in posizioni di coda rispetto a tutti i paesi europei nelle statistiche che riguardano le start up e in posizione addirittura umiliante per quanto riguarda le start up di successo” (p. 61-2). Ed è “è sconfortante vedere l’Italia inserita” (p. 64) in classifiche che ci collocano “non tra i paesi europei ma tra quelli del terzo mondo” (pp. 65). Non più tardi del 13 giugno scorso Der Spiegel on line ha pubblicato un articolo di Hans-Jürgen Schlamp con una tabella, relativamente alla crescita economica nell’anno in corso, che colloca al primo posto l’Irlanda, a seguire, nell’ordine, Spagna, Paesi Bassi, USA, Portogallo, Germania, Eurozona, Gran Bretagna, Francia, Grecia, e, purtroppo, all’ultimo posto, l’Italia.
Indirizzo pubblico, non statalismo
Prodi propone un recupero di potestà dell’interesse pubblico, senza alcun “dirigismo”, senza alcuna “programmazione forzata” (p. 74). Un ruolo del pubblico che deve aver a che fare soprattutto con sanità e scuola, settori-simbolo dei diritti universalistici da cui dipendono il principio di eguaglianza, sostanziale oltre che formale, e, relativamente alla scuola, condizioni per promuovere e orientare la stessa crescita economica (pp. 83-5). Sulla prima si sottolinea il rilievo del Servizio sanitario nazionale: “Non era certo casuale l’emozione collettiva, di cui sono stato testimone, quando esso fu votato dal governo e accolto dal paese il 23 dicembre 1978. Ero infatti in quel periodo ministro dell’Industria” (p. 134).
La scuola motore economico
Sulla seconda, la scuola, si evidenzia come si tratti di un indispensabile strumento di sviluppo e di riequilibrio. Con un accento posto sul rilievo dell’istruzione tecnica: “Il merito del nostro passato successo industriale se lo possono attribuire, e a ragione, i periti, gli ingegneri e gli operai specializzati” (p. 77). Infatti: “In ogni provincia italiana la maggioranza degli imprenditori è uscita dal locale istituto tecnico” (ivi). “Eppure oggi non esiste in Italia un sistema di scuole tecniche degne del XXI secolo” (pp. 77-8). Di qui la proposta di guardare all’esperienza tedesca dei Fraunhofer (pp. 80-1). D’altra parte è noto l’imprinting neo-idealistico della scuola italiana. Anche al fine di sanare la piaga degli abbandoni, è indispensabile impostare meglio il rapporto tra formazione tecnico-scientifica e filiera professionale.
Gli abbandoni
Quindi il fenomeno degli abbandoni, vera e propria distruzione di capitale sociale. “Negli ultimi 15 anni il 31,9% degli studenti iscritti alle scuole superiori statali non ha infatti terminato il ciclo degli studi. Si tratta di una popolazione di quasi 3 milioni di ragazzi. E’ una cifra ben lontana dall’obiettivo del 10% di early school leavers, ossia i giovani europei tra i 18 e i 24 anni che smettono di studiare dopo la licenza media (o l’equivalente europeo), fissato tra i cinque obiettivi principali della Strategia Europea 2020” (p. 82). Ed è “questa la principale causa che genera i Neet (Not engaged in education, employment or training), i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non fanno formazione o apprendistato, non lavorano” (p. 83).
I Neet
L’Italia risulta il Paese europeo con la maggior percentuale di Neet: né studenti, né occupati, né in formazione. Ormai “più di un giovane su quattro risulta inattivo, ovvero non inserito in alcun percorso formativo o lavorativo (la media Ocse è del 15%)” (p. 90). La lotta alla disoccupazione giovanile diventa, quindi, una priorità assoluta. “Un tasso di disoccupazione giovanile accettabile (anche se già pesante) per un paese civile e sviluppato – spiega Prodi – dovrebbe attestarsi intorno al 7-8%. In Italia si è perfino superato il 40% con punte oltre il 50% nel Mezzogiorno e il 60% per e giovani donne del Sud” (p. 91). D’altra parte, l’azzeramento della dispersione scolastica avrebbe “un impatto sul Pil compreso tra l’1,4 e il 6,8%, ovvero potrebbe consentire di recuperare da 21 a 106 miliardi” (p. 83).
Il decremento dei laureati
Altro aspetto da non trascurare, il numero dei laureati. “I dati Eurostat posizionano da anni l’Italia in coda ai paesi dell’Unione europea nell’istruzione superiore, con una percentuale di laureati nella fascia di età 30-34 anni pari al 23,9%, contro la media europea del 37,9%. A preoccupare è anche (e soprattutto) il trend che ha visto negli ultimi sette anni gli immatricolati in costante diminuzione (67.000 unità in meno)” (p. 84). Quelli nell’attuale anno accademico 2016-2017 sono stati 12.295 in più con un segno in controtendenza.
Successione
Dopo le analisi, alcune proposte, accompagnate dal rovello della sostenibilità economica. Ovvero ricerca di ulteriori risorse per realizzare gli investimenti necessari. Partendo da una “sostanziale modifica dell’imposta di successione”, bassa nella comparazione con gli altri Paesi europei, “una specie di tassa di scopo destinata alla valorizzazione delle nuove generazioni” (p. 86), per “un deciso potenziamento del sistema scolastico” (p. 89). Sempre legato a motivazioni educative, il servizio civile (pp. 97-9).
Pensioni
Sul sistema pensionistico Prodi rovescia lo schema che sin qui ha prevalso. Prima di tutto sottolineando come un livello minimo per le pensioni non possa “essere inferiore a 700 euro mensili (p. 111). Poi spiegando come occorra “riconoscere a tutti i lavoratori che hanno versato contributi per almeno 20 anni una pensione aggiuntiva a quella maturata con la contribuzione, pari a una percentuale via via decrescente al crescere del valore della pensione maturata” (pp. 111-2). Ciò al fine di “unificare il livello delle aliquote contributive per tutte le tipologie di lavoro al livello del 27%” (p. 112). Quindi, la casa, vero punto di discrimine, nella crisi, tra chi può farcela e chi rischia di non farcela (pp. 114-6). Con una domanda: siamo certi che l’abolizione indiscriminata dell’Imu sulla prima casa non sia stato “un errore”? (p. 143).
Le nuove disparità regionali
Poi, il tema dell’“aumento delle disparità regionali, ovvero la questione meridionale, con un Sud che ha perso “durante la crisi 13 punti di Pil e quasi 600.000 lavoratori, contro gli 8 punti di Pil e i 211.000 lavoratori del Centro Nord” (p. 124). La tendenza in atto che porta i meridionali a traferirsi al nord e i settentrionali all’estero (p. 125). Infatti: per “troppi cittadini l’unica occasione di cambiamento è data dalla fuga all’estero” (p. 155). Poi la “gestione del patrimonio pubblico”, tra privatizzazioni e liberalizzazioni. Con un apprezzamento per il lavoro svolto da Pierluigi Bersani, ricordando “il pieno dispiegarsi della concorrenza nelle telecomunicazioni e i benefici derivanti ai consumatori dalle azioni di liberalizzazione” del suo decreto come ministro (p. 129).
Reddito di inclusione
Sino al reddito minimo. Con questa precisazione: già nel primo governo Prodi fu introdotto il Reddito minimo di inserimento “sperimentandolo in 39 comuni” (p. 130). Sino a giungere, da ultimo, all’attuale Reis (Reddito di inclusione sociale), approvato dal Parlamento quest’anno. Quindi, altri temi: dal ruolo dell’imprenditoria insieme alla qualità del sistema territoriale alla responsabilità sociale dell’impresa, dall’economia sociale a quella di comunione. La cooperazione, “con un fatturato annuo di ben 137 miliardi di euro, con un impiego di 1.200.000 addetti” (p. 149), cerniera tra economia ed etica.
Una strategia
Ruolo dello Stato e responsabilità sociale delle imprese possono diventare, insieme, il paradigma per una nuova fase per l’economia sociale di mercato. Tra Stato e Mercato, infatti, c’è altro. Chi lo chiama terzo settore. Chi capitale sociale. Chi economia civile. Chi sussidiarietà. Non un escamotage, un espediente o un ripiego; una strategia per la valorizzazione dei beni comuni. Da un lato, per non rassegnarsi alle distorsioni del mercato, cosa che il neoliberismo non garantisce; dall’altro per un’interpretazione più dinamica delle stesse funzioni di una potestà pubblica modernamente intesa.
Il debito pubblico
Per far fronte a questa situazione, oggettivamente non facile, Romano Prodi, lungi dall’immaginare ritorni allo statalismo, contro la crisi propone un recupero dei compiti essenziali dello Stato. Con questa precisazione: “Nel nostro paese, anche in ragione degli oneri derivanti dal debito accumulato, la spesa pubblica è pari al 53% del Pil. E’ quindi improponibile un qualsiasi aumento di spesa” (p. 140). Ma attenzione: “Se analizziamo la composizione, notiamo come la spesa legata al welfare, all’istruzione e agli investimenti sia inferiore rispetto ai paesi con cui dobbiamo confrontarci” (p. 141). Pertanto il ruolo dello Stato non va disgiunto dall’opportunità di una rivisitazione della spesa: “ai miei tempi – dice Prodi – si chiamava ‘operazione cacciavite’ e oggi più elegantemente spending review” (pp. 141-2). Gli investimenti devono essere produttivi; altra cosa rispetto alla monetizzazione e ai bonus; il settore della spesa pubblica deve essere sempre monitorato sotto il profilo di un’incessante riqualificazione.
Valore lavoro
Giusto dare spazio alla voce di Romano Prodi, che, in questo suo nuovo libro, sembra voler interloquire con i contributi venuti, negli ultimi anni, non solo dal dibattito pubblico, anche da autorevoli autori del pensiero sociale, come, da ultimo, tra gli altri, Thomas Piketty. Al centro, l’idea di una crescita unita alla giustizia sociale. Per un governo all’altezza della sfida globale. Come dice lo stesso Prodi: “Sempre di più il lavoro è fisso e la finanza è mobile”. Con due punti fermi. In primo luogo: “restituire valore e peso politico al lavoro” (p. 27). Secondariamente: “impossibile rimettere le cose a posto senza un ruolo dei sindacati rinnovato e rafforzato” (p. 26).
Superare le paure
In sostanza, il libro di Romano Prodi è un bagno di realismo. Un modo di congedarsi dalle narrazioni, prendendo sul serio l’annuncio della fine di ogni narrazione. Non è corretto collegarlo alle contingenze politiche; sarebbe, al contempo, inappropriato non vedervi un messaggio squisitamente politico, anche rispetto alla stagione più recente, attraverso una proposta, nello spirito dell’Ulivo, che sollecita le energie – intellettuali, etiche, civili – di un nuovo centrosinistra inteso come innovazione politica, non contro, con la sinistra di governo. La società ha sempre corso. Continua a correre. La politica dovrebbe cercare di starle, se non davanti, almeno al fianco.