Può apparire temerario, dopo i fatti di Londra e Torino e in una cornice internazionale ulteriormente surriscaldata dalla spaccatura del mondo arabo sunnita sul Qatar e dagli attentati a Teheran, tirare in ballo pure i ninja. Non i leggendari eroi della tradizione nipponica che hanno alimentato la fantasia dei fumetti, bensì il più prosaico acronimo inglese di “No Income, No Job, no Assets”, “nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio”. Quello che era fino al periodo pre-crisi il terrore dei grandi erogatori di prestiti, ai nostri giorni rischia di divenire la cifra che più coglie il modello di società che sta scaturendo da una abnorme finanziarizzazione dell’economia e da politiche di bilancio deliberatamente recessive. Senza una decisa inversione di rotta nelle politiche economiche e monetarie, “ninja” appare il naturale epilogo della tragedia costituita dal generale impoverimento del ceto medio nelle società occidentali, il traguardo finale di una precisa quanto miope strategia, perché recidendo il ramo della classe media e di una minore disuguaglianza sociale, si taglia il ramo su cui il capitalismo e la democrazia sono appollaiati, e si sono irrobustiti, dal dopoguerra.
In una fase politica in cui molti avvertono la necessità di una discontinuità nelle politiche delle forze di centrosinistra, ragionare intorno a politiche anti-ninja può servire a costruire risposte concrete e credibili, oltre alle grandi affermazioni di principio che scaldano i cuori, qualche volta producono consenso, ma che da sole non cambiano le cose. Bisogna dare un senso concreto all’obiettivo di più investimenti per il lavoro, più risorse per il welfare, meno povertà, meno disuguaglianze, riduzione realistica e progressiva della pressione fiscale. Ci saranno pure la globalizzazione e la deflazione tecnologica, ma ogni epoca ha avuto la sua e l’ha superata, pur a costo di sacrifici, scoprendo nuove opportunità. La deflazione da debellare con più urgenza oggi è quella da debito, perché produce effetti deleteri sull’economia reale. E allora diciamolo, finalmente, che il re è nudo. Il sovrano del nostro tempo è la grande finanza privata che è riuscita così bene ad affermare i suoi interessi anche quando si opponevano a quelli della collettività, da destabilizzare le economie, le società, e presto se non si cambia direzione anche le democrazie, occidentali.
Diciamo che il debito pubblico italiano, al netto di qualsivoglia malversazione, spreco, evasione ed elusione fiscale – mali di cui dobbiamo prendercela solo con noi stessi, e non con la Germania o con le banche – non sarebbe affatto quello che è, senza la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia, avvenuta negli anni Ottanta, che ha reso il debito pubblico da leva fondamentale per lo sviluppo quale è stata negli anni del boom economico, a grande occasione di business per la finanza internazionale a scapito delle casse pubbliche e quindi dei contribuenti.
Diciamo quello che è evidente e sotto gli occhi di tutti: anche un’austerità ancor più brutale e perenne, a tempo indefinito, non permetterà mai, dicasi mai, di ridurre il nostro debito pubblico. Non solo perché è pura fantasia immaginare per i prossimi anni tassi di crescita superiori al 3% (la Germania, prima della classe, appena appena arriva al 2%) ma soprattutto perché con la privatizzazione del debito sovrano siamo entrati appieno nella trappola del debito che ammorba le finanze pubbliche, i bilanci aziendali e quelli familiari. Da questo tipo di deflazione non ci ha salvato il quantitative easing di Draghi, un pur apprezzabile palliativo, ma ci potranno salvare solo una pronta revisione dei trattati europei e soprattutto il ritorno al controllo pubblico della Banca d’Italia, riattribuendole il potere di una ponderata monetizzazione del debito per conseguire nel contempo un triplice antidoto: alle spinte deflattive, alle manovre speculative dei mercati, al crescere della disoccupazione. Una soluzione, forse alla giapponese, ma con i vantaggi del modello nipponico: sostanziale immunità della finanza pubblica dai giudizi delle agenzie di rating e piena occupazione.
Un tale cambiamento di linea nelle politiche economiche e monetarie costituisce il presupposto di ogni politica per il lavoro, lo sviluppo e la riduzione delle disuguaglianze. Bisogna cambiare il modo di ragionare e conseguentemente di realizzare le politiche per rispondere all’effetto ninja – niente reddito, lavoro e proprietà per la maggior parte della popolazione – a cui ci sta portando la “debitocrazia” che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni.