E’ chiaro che la candidatura di Berlusconi spacca e polarizza. E non c’è bisogno di spiegare qui perché una personalità come la sua non è votabile né ora né mai per il centrosinistra. Tuttavia, dobbiamo fare i conti con il fatto che l’elezione presidenziale ha cambiato pelle nel corso degli anni.
I primi a segnare una cesura netta con la tradizione furono i radicali con la candidatura di Emma Bonino, facendo entrare direttamente nel conclave quirinalizio il dibattito pubblico sull’elezione del presidente. Ci costruirono una campagna di comunicazione sopra come se fossero direttamente i cittadini a eleggere il Presidente. Ne ricavarono un significativo 8 per cento alle elezioni europee: un’operazione indubbiamente strumentale, ma che raccontava quanto la seconda Repubblica avesse aperto le porte alla personalizzazione estrema della politica. Persino sulla prima carica dello Stato.
Stessa cosa avvenne con Rodotà che, nonostante la sua storia di parlamentarista convinto, fu al centro di una battaglia – favorita anche dall’irruzione sulla scena dei social – condotta dai Cinque Stelle che per la prima volta entravano in Parlamento e giocarono a sparigliare gli equilibri. Oggi siamo di nuovo qui.
Sul Quirinale il centrodestra sta costruendo un pezzo della sua campagna elettorale per le prossime politiche. Che si voti tra un mese, tra sei mesi o tra un anno stanno rilanciando un profilo della loro coalizione, galvanizzando una parte del loro popolo e persino pagando qualche cambiale al Cavaliere. E noi?
Io credo che il blocco progressista faccia bene a chiedere serietà e rigore. Quando Enrico Letta afferma che il Parlamento è ormai un unione di minoranze dice una verità oggettiva. Nessuno ha i numeri per forzare la mano. Altrimenti ci sarebbe ancora il Governo Conte e non quello di Draghi.
E dunque bisognerà trovare una convergenza larga sul Capo dello Stato. Ma se la destra non rimuove il macigno, se continua ad avere ancora il torcicollo, se non si rimette a fare politica, difficilmente possiamo restare fermi a guardare. L’obiettivo immediato è bloccare Berlusconi, dunque bisogna andare al concreto senza perdersi in troppi politicismi. Ma occorre sapere anche che da noi i cittadini aspettano una proposta che delinei un’alterità, un’idea opposta di tenuta istituzionale, un messaggio inequivocabile di garanzia costituzionale.
Non una bandierina, ma un segnale al paese che si può fare anche una politica diversa. E che nell’area progressista ci sono risorse in grado di incarnare un’Italia pulita. Questa partita si vince con un piede e mezzo nel palazzo – e dunque con la necessità di costruire un compromesso politico avanzato, non al ribasso – ma anche con mezzo piede fuori, dove sta un’opinione pubblica che non fa sconti, che guarda questo appuntamento con maggiore coinvolgimento sentimentale rispetto a prima.
Non è un caso che il Presidente della Repubblica negli ultimi venti anni è stata la figura che ha meno risentito della crisi della politica tradizionale, in cima a tutti i sondaggi di opinione, risorsa estrema di condivisione in un paese spaccato come una mela. Per questo ritengo giusto almeno nelle prime votazioni provare a far emergere un nostro punto di vista chiaro.
Domani si incontreranno i tre leader della coalizione giallorossa, Speranza, Letta e Conte per fare una valutazione comune. Ripongo molta fiducia in questo passaggio perché tenere unito il fronte progressista è la precondizione per non essere travolti. Ci vuole solo un po’ più di coraggio, di altruismo e di fantasia.