Un testo che sa di essere importante. Il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica è in primo luogo un evento di comunicazione consapevole di sé. Esso stesso si nomina e si annuncia. Cossiga, 1985: “È tradizione che il presidente della Repubblica rivolga un messaggio augurale…”; Saragat, 1967: “È consuetudine civile che il capo dello stato, alla fine dell’anno e all’inizio dell’anno nuovo, si rivolga a tutti i concittadini…”.
Già il primo discorso, che fu radiofonico, si auto-commentava. Einaudi, 1949: “Nel rigoglio di intimi affetti suscitato da questa trasmissione mi è caro interpretare con la mia parola il fervore…”. E su un testo simile non può non gravare il peso delle parole, né è possibile nascondere l’emozione nel pronunciarle. Pertini, 1978, anno dell’omicidio di Moro: “Vi confesso che non volevo introdurmi nell’intimità delle vostre case… ma il mio silenzio sarebbe stato male interpretato…”.
Sì, il messaggio di fine anno non può tacere. Impossibile sottrarsi. Dunque c’è in esso l’inesorabilità, oltre alla coscienza di sé: un peso non leggero da consegnare a chi lo pronuncia. Mentre sull’altro versante, di là dallo schermo televisivo, c’è una platea di milioni in attesa, e una naturale energia simbolica immediatamente attiva, con il suo inevitabile significato comunitario. Quanto basta per farne un appuntamento fondante del nostro repertorio istituzionale, dalle caratteristiche uniche e con possibilità comunicative incomparabili. Un vero peccato che le analisi del giorno dopo spesso lo riducano a una mera didascalia della cronaca politica – certo, c’è anche quello – trattando ogni aspetto del messaggio come fosse una trovata del momento. A volte sembra che i nostri media non possiedano strumenti alternativi al cinismo retroscenistico, e che abbiano sostituito per sempre il dovere della lucidità con la denigrazione elitaria, sistematicamente avversa ai valori democratici.
In realtà, il messaggio di fine anno – e il lento cambiamento del suo cerimoniale – è una vicenda civile in pieno svolgimento. E il suo senso va colto lungo un’evoluzione che supera persino le volontà dei singoli interpreti. Studiando l’iconografia della Rivoluzione francese, Ernest Gombrich scrisse: “Se l’etimologia dei simboli, l’analisi storica di questi emblemi, ha un valore al di fuori della curiosità, essa consiste nella capacità di rivelare le loro stratificazioni e di illuminare la penombra che garantisce il loro successo”.
Cosa dicono allora gli strati che si sono depositati nel messaggio del Presidente, anno dopo anno? È una storia che si misura in decenni, fatta non solo di frasi o voce, ma anche di ambienti, luce, regia, nella quale il Presidente agisce in uno spazio dato, ogni volta ricollocandosi, provando, cambiando. Come in una sorta di laboratorio visivo della rappresentazione democratica: in termini simbolici, la sua postura ha cercato la giusta distanza con quella platea di “cittadine e cittadini” che dalla Resistenza in poi non è stato più possibile concepire come un uditorio da dare per scontato. E mentre il rapporto “con le masse” si modificava, gradualmente si scomponeva l’ex-cathedra del dopoguerra, abbandonando la dimensione frontale, bidimensionale, schema arcaico dominante nella numismatica e nell’araldica.
All’inizio, ci fu da inventarsi forme comunicative che non avevamo mai avuto, e dal primo messaggio si avviò la ricerca del tono, degli spazi, della forma di questa relazione nuova. Quando ad esempio nel 1997 Scalfaro abbandona la scrivania presidenziale per sedersi accanto a un caminetto, sente di dover dare esplicite motivazioni – “Vi incontro come vedete questa sera in un salottino dell’appartamento… mi è parso così di dare un tono più familiare” – e sembra sia accaduto poco. Ma quella scrivania, per decenni invalicabile, che Leone mai aveva osato superare e che il solo Pertini pareva aver abbandonato ubbidendo al suo particolare carattere, da allora diventa un vero e proprio personaggio. Rappresenta la relazione con le istituzioni, la si può negare o rendere protagonista.
Seguiamo le tappe recenti. Ciampi non si avventura oltre la sua scrivania per l’intero settennato. Da lì annuncia l’ingresso nell’euro, ma alle sue spalle rimane sempre, come una statica quinta teatrale, la storica parete di arazzi con i suoi colori polverosi, sulla quale si infrange lo sguardo degli spettatori. Qualche anno dopo però la quinta scompare e la scenografia diventa più profonda: nel 2008 Napolitano ha dietro di sé non più gli arazzi ma una finestra che dà su un giardino illuminato nella notte. Alla fine del mandato la stanza aumenta ancora la sua ampiezza – quanto sarà grande? – e il Presidente adesso siede a uno scrittoio più scarno mentre la scrivania è sullo sfondo, sfocata tra gli arazzi. Il discorso di fine anno è entrato in una rappresentazione tridimensionale, che appartiene non più alla staticità lapidaria ma alla realtà viva delle cose. Ma perché il rappresentante dell’unità nazionale non può fare a meno di muoversi? Si avvicina alla platea, vuole guardarla meglio? Oppure la cerca?
Evitiamo automatismi. Ma come non vedere, a posteriori, in questi spostamenti un sottinteso potente, la muta onda d’urto di un elettorato sempre più magmatico, sempre meno rappresentato. Ecco allora che nel primo discorso di Mattarella, è il 2015, lo spazio continua ad ampliarsi: l’inquadratura iniziale stavolta è obliqua, dinamica, e dentro di essa il Presidente quasi sembra fare capolino per sporgersi. Di più: il set si anima con i movimenti di una telecamera non più fissa, seguiti dallo sguardo del Capo dello Stato. Il racconto visivo suggerisce un’idea di potere sempre meno autosufficiente, tanto che la grammatica stessa delle riprese evoca un punto di vista esterno, come se in quella stanza ci fosse ora un nuovo soggetto attivo: gli occhi della platea. Non a caso adesso anche i contenuti del discorso comprendono materiali eterogenei. Prima arrivano le citazioni delle opinioni di comuni cittadini, riportate e commentate, poi l’immagine costante del presidente viene alternata con altre. Mattarella è il primo a introdurre nel discorso di fine anno le figure: nel 2016 mostra in primo piano un disegno degli alunni di una scuola in zona terremotata, nel 2019 incentra l’intero messaggio sul commento a una foto – l’Italia vista dallo spazio – donatagli da un’astronauta canadese. A stacco, la regia per un momento ci mostra da vicino l’immagine escludendo il Presidente dall’inquadratura, fatto inedito.
È lontana “la moneta” degli inizi. La vecchia scrivania è ormai uscita di scena. Adesso il Presidente siede al centro di una sala circolare, ariosa, e oltre le tre bandiere cerimoniali, sole testimonianze dell’apparato scenografico tradizionale, la prospettiva prosegue verso uno spazio attiguo. Un set infinitamente distante e più aperto di quello da cui tutto iniziò, alla fine degli anni cinquanta, con la presidenza Gronchi. E nel discorso del capodanno 2020, la profondità si estende: è l’anno del Covid, e le bandiere – diventate ora l’oggetto di scena essenziale – spalancano uno spazio ulteriore, il vasto cortile del Quirinale che situa il Presidente non più nella sua stanza ma nel paesaggio architettonico del paese.
In questo lungo percorso simbolico c’è una mutazione evidente. Il messaggio è diventato man mano ciò che si rendeva necessario fosse, rispondendo a sentimenti collettivi. Ha vissuto di vita propria, e non cambia poi molto che i singoli protagonisti ne siano stati più o meno consapevoli. Certo, si può ritenere questa trasformazione un adattamento camaleontico concepito nelle stanze del potere, oppure vederla come una progressiva perdita di fatidica “magia” della carica presidenziale. Ma può anche darsi che gli esegeti fatichino a pensare gli italiani come interlocutori, in fin dei conti come popolo, e rigettino la possibilità che queste immagini si stiano costruendo dentro la nostra storia. Non si tratta solo di risalire alle stratificazioni indicate da Gombrich, ma di riconoscere la democrazia come processo presente nelle nostre vite.
I cambiamenti nei linguaggi delle istituzioni non sono istantanei, non coincidono per forza con leggi, decreti e cambi di regime. La loro postura cambia con estrema gradualità e il loro adeguamento al costume avviene magari anche controvoglia. Ma avviene. Se ci si perde nella cronaca politica quotidiana, e si schiaccia ogni valutazione sull’immediato, tutto diventa tattica e si sopravvalutano anche i figuranti. Se però è vero che nel linguaggio ci sono le verità basilari, allora il rettangolo di quell’inquadratura sta parlando di noi. Ed è la platea che in silenzio vi assiste da casa ad averlo cambiato, anno dopo anno. La sua è una storia di segni: non udita, ma vera.
Beninteso, non c’è alcun lieto fine già deciso. Il 2021 poi è stato segnato dall’incarico a un nuovo governo, con prese di parola da parte di Mattarella molto meno conciliate, anzi vissute entro scenari emergenziali che hanno interrotto questo disegno inclusivo. Ma il filo del discorso rimane: il messaggio di fine anno è ancora lì dove lo abbiamo lasciato un anno fa. Ed è uno tra i pochi autentici affacci dei principi democratici nell’esperienza popolare. Ciò che in esso può sembrare immagine è invece reale, vivo nella coscienza collettiva, genera aspettative, sottintende speranze. Con i suoi filmati vediamo quanto nell’istituzione presidenziale si sia via via depositata una relazione con il paese ben più consistente della manovra politica e degli interessi costituiti.
Ignorarlo non è concesso. Da settimane, da mesi, si parla della Presidenza della Repubblica e delle sue logiche con una disinvoltura che potrebbe anche essere considerata eversiva, se non fosse il frutto di un’inconsapevolezza persino dolorosa da rilevare. Può darsi che un tale patrimonio a uno sguardo disincantato e tecnico appaia superato e superabile. Ma quella platea di milioni non pare pensarla allo stesso modo.