“Sogno una politica che sia in prima linea nella lotta alla mafia, quella che fu di tanti parlamentari e di Pio La Torre (…). Per troppo tempo, fingendo di rispettare la presunzione di innocenza, la politica ha sovrapposto due tipi di responsabilità, che sono ontologicamente diversi: le responsabilità penale e quella politica. E’ grazie a questo meccanismo perverso che si è creata la santificazione di Andreotti, per cui Dell’Utri e Cuffaro sono stati rieletti ed è per questo che Silvio Berlusconi è ancora in grado di ricoprire un ruolo importante nel contesto politico nazionale”
Le parole di Nino Di Matteo, pronunciate in occasione della giornata di studi intitolata “Questioni e visioni della giustizia”, non hanno scalfito più di tanto il silenzio assordante opposto, da qualche anno a questa parte, ai rilievi critici che determinati settori della magistratura muovono alle rationes ispiratrici delle principali scelte del legislatore in tema di giustizia: rilievi critici spesso archiviati come manifestazioni di sterile protagonismo di singoli magistrati in cerca di visibilità, come improprie rivendicazioni dei principali esponenti del “partito dei giudici”.
Il generico riferimento alla necessità che i magistrati “si astengano dal partecipare al dibattito politico”, limitandosi a “parlare attraverso le sentenze”, non toglie tuttavia autorevolezza alle opinioni espresse da quei pubblici ministeri che, in ragione della loro attività di indagine, possono considerarsi tra i massimi esperti internazionali in tema di lotta alla corruzione e di contrasto alla criminalità organizzata; né vale a sminuire le due ragioni di fondo sulle quali si basano gli argomenti proposti dal “partito dei giudici”: ragioni di fondo che le principali forze di governo possono talvolta eludere, ma non confutare.
Il “partito dei giudici” lamenta infatti la mancata approvazione di quelle riforme strutturali (come un intervento sul regime della prescrizione, da far decorrere non dalla consumazione ma dalla scoperta del reato e il cui sopravvenire risulti impedito dalla sentenza di primo grado; come una revisione del sistema delle impugnazioni; come una massiccia depenalizzazione relativa a tutte quelle fattispecie di reato – primo fra tutti, quello di immigrazione clandestina – poco compatibili con gli obiettivi di efficienza e celerità che dovrebbero ispirare il sistema giustizia) di cui da tempo immemorabile la ANM invoca l’attuazione: riforme deliberatamente osteggiate durante il ventennio berlusconiano delle leggi ad personam (in massima parte, ancora in vigore), e mai decisamente sostenute, malgrado le incoraggianti premesse inziali, dai governi che si sono succeduti nel corso della legislatura attuale.
Ma soprattutto il “partito dei giudici” coglie nel segno allorquando fa emergere quella che può essere descritta come la “duplice debolezza” della politica: debolezza riscontrabile tanto nella propensione a demandare alla magistratura la funzione moralizzatrice della res publica consacrata nell’art. 54 della Costituzione, che pure della politica dovrebbe costituire esclusivo appannaggio; quanto nella tendenza a far coincidere l’area del “penalmente rilevante” con quella del politicamente sopportabile.
Dal “caso Ruby” ai primi processi relativi alla “trattativa tra Stato e mafia”, non è infrequente che l’ordinamento non metta a disposizione dei giudici gli strumenti normativi per addivenire ad una sentenza di condanna, per accertare la sussistenza di una responsabilità penale in capo ai protagonisti di vicende politicamente riprovevoli: i magistrati applicano le leggi, non riscrivono la Storia; la Storia dovrebbe essere riscritta dalla politica, ma la politica si dimostra, appunto, troppo spesso debole. I fatti cristallizzati nelle sentenze (come le relazioni tra Andreotti e Cosa Nostra, accertate fino al 1982; o il rutilare delle Olgettine tra i saloni di Arcore) vengono ignorati a seconda delle convenienze del momento; le sentenze di non luogo a procedere per prescrizione si trasformano in assoluzioni con formula piena; i protagonisti di quelle vicende riprovevoli vengono elevati a Padri della Patria, in barba ai criteri di disciplina e onore che dovrebbero orientare l’agire dei soggetti titolari di una carica pubblica.
Nessun colpevole, nessun responsabile: non c’è responsabilità politica, al di fuori di quella penale. Lo conferma l’indifferenza all’istanza di moralizzazione proveniente da una fetta sempre più ampia di opinione pubblica, che rischia di essere paradossalmente canalizzata nelle pulsioni protestatarie innervate dalle cosiddette “forze antisistema”; lo conferma il silenzio con cui sono state accolte le parole di Nino Di Matteo, liquidate come l’ennesima impropria manifestazione del protagonismo di un autorevole esponente del “partito dei giudici” proprio in quanto indicative della “duplice debolezza” che da troppo tempo affligge la politica.