Si fa presto a dire “la politica non conta più niente”. Affermazione generica che dice tutto e quindi non dice nulla. La base di verità è che l’attuale stato d’eccezione, instaurato ad arte in un’epoca di emergenza sanitaria e non, ha messo da parte la lettera della Costituzione per inaugurare una fase in cui i partiti appaiono incapaci di iniziativa autonoma e quasi obbligati a sostenere il governo. Il pallino è nelle mani di una élite tecnocratica di quasi diretta emanazione dei potentati economici, fiancheggiata dai rappresentanti della cattiva politica, quegli stessi che, con la massima intensità, hanno portato l’attacco al governo politico di Conte e aperto la strada a quello del “fare” di Draghi. Non si può dire quindi che la politica non conti nulla, ma si deve dire che c’è, da una parte, la cattiva politica, che si è aggrappata all’élite tecnocratica pensando di buscarne dei tornaconti soprattutto personali, e, dall’altra, una buona politica che, con tutti i limiti possibili, pensa ancora in termini di rappresentanza, di partecipazione, di attivismo pubblico, di civismo e di forme di vita pratiche (partiti, associazioni, ecc.). Si tratta di una distinzione palmare, che solo una pessima informazione e una certa faciloneria di giudizio può distorcere e occultare.
Detto questo, si potrebbe tentare di capire perché siamo a questo punto, e dove abbia origine una tale distorsione. La convinzione, sempre più forte, è che la trasformazione bipolare del sistema politico italiano, sia davvero all’origine di tutto. Che la “spartizione” in due del sistema originario dei partiti abbia creato un vuoto centrale, questo sì, all’interno del quale la politica abbia smesso di funzionare. È come se Mosè avesse diviso le acque, lasciando un corridoio centrale in cui si sono addensate le forze impolitiche, quelle più restie alla politica buona. Le radici dell’eccezione sono tutte (o quasi) lì. Mentre la politica si sistemava (e mescolava) ai lati, il centro del sistema veniva progressivamente occupato da una élite sempre più restia al sistema dei partiti, e sempre più propensa, invece, al “fare” tecnico, all’aziendalismo. Una élite molto dotata di un senso per il sistema bancario, per quello informativo, per gli uomini soli al comando, meglio se tecnocrati, professori, banchieri, cosmopoliti, uomini di mondo: migliori e, dunque, liberi apparentemente da ipoteche politiche. Berlusconi adombrò ante litteram questo uomo nuovo libero dalla influenza dei partiti, poi toccò a Monti e oggi a Draghi. Il berlusconismo, il montismo, il draghismo sono “figure” dialettiche successive del medesimo fenomeno, che il bipolarismo ha contribuito a liberare. Taccio del renzismo, che è una figura appena caricaturale.
Qual è il secondo effetto prodotto dal bipolarismo, dopo aver ingenerato lo svuotamento del centro politico? Quello di aver mischiato le carte. I partiti “bipolarizzati” hanno perduto la loro identità per un gioco interno (e poi anche esterno) di vasi comunicanti. Anche questo ha contribuito a far prevalere una politica cattiva, perché ha tolto caratteri, storia, tradizione a organizzazioni (di destra e di sinistra) che si sono mostrate sempre più spiantate, trasparenti (in senso deteriore) e alla mercé dell’arrembatore di turno. Il caso PD-Renzi può dirsi eclatante. La differenza tra Italia e Germania, tanto per dire, è che i tedeschi hanno ancora un sistema dei partiti dotato di autonomia, che riesce a raccogliere le spinte al cambiamento o alla conservazione, senza che queste defluiscano in una palude tecnocratica e “uomo-solista”. La SPD è comunque la SPD, non un partito flaccido, all’americana, leggero sino alla consunzione. La politica senza caratteri, tradizione e identità, la politica senza un ethos, è la preda indifesa del primo lupo impolitico che si affaccia al proscenio di Palazzo Chigi o del primo giullare che tenta di lucrare posizioni galleggiando sulla crisi (con uno yacht, magari).
Ritorniamo a bomba sul tema iniziale: il vuoto politico al centro, presso il quale si sono insediati i potentati economici e l’élite tecnocratica di riferimento. C’era un modo per evitare questo esito, ed era quello di non svuotare il centro, affidandosi piuttosto a un sistema di alleanze. Lo diciamo col senno di poi, ma l’avevamo detto già col senno di prima: dovevamo lasciare il trattino. Dovevamo dire centro-sinistra, non centrosinistra. Quel trattino avrebbe potuto salvare la politica dalla consunzione di un rassemblement che ambiva a essere un agglomerato indistinto e “trasparente”, senza caratteri, senza tradizione, senza identità, se non quella generica, “ulivista”, oggi quasi dimenticata. Un sistema politico deve avere un equilibrio, non può sbandare impunemente all’interno nell’uno-contro-uno elettorale, che diventa poi un “asso piglia tutto” governativo. L’equilibrio di sistema, quello grazie al quale tutto il terreno politico è coperto, impedendo con ciò l’infiltrazione “tecnica”, diretta, senza mediazione dei potentati, va curato grazie alla presenza sul campo di soggetti in grado di muoversi e spaziare nella costruzione di un consenso e di una partecipazione quotidiana. Diciamolo: la tenuta del sistema è molto più importante di chi “vince”. Se il bipolarismo nasce col mito di nominare un vincitore “la sera stessa”, la democrazia rappresentativa si consolida invece nella mediazione politica e parlamentare. Leggiamo che il governo tedesco verrà nominato probabilmente non prima di un mese o due. È questa la differenza tra l’attuale locomotiva europea (anche politica) e chi si illude di poterlo diventare non con la politica, ma esibendo tecnici direttamente (e opacamente) insediati sullo scranno esecutivo.
La verità è che una democrazia senza un esecutivo vive, ma senza un parlamento muore. Senza partiti il gioco diventa roba da predatori, coi partiti invece prevale una sorta di tutela generale, di salvaguardia democratica collettiva. Quando Berlinguer rese un tabù il 51% sull’onda dei fatti per il Cile, non fece calcoli aritmetici, non temeva che la “vittoria” potesse essere a rischio perché striminzita. In realtà, metteva in guardia dall’idea che si potesse difendere e sviluppare la democrazia senza una unità popolare, senza una grande e solida base politica, senza un sistema solido di partiti; metteva in guardia dall’illusione che una democrazia avanzata potesse affidarsi a un uomo solo, per quanto legittimato dal voto, e trascurasse l’importanza di disporre di una rete articolata di forme di vita democratica (dal Parlamento ai partiti, al sistema associativo, al civismo) in alternativa alle lusinghe di lobby e potentati anche internazionali. L’orizzonte tecnico, impolitico, in cui ci muoviamo oggi in Italia è l’insidia più grande. Ingenera l’idea che una tecnocrazia possa funzionare meglio e di più del “lusso” democratico. Convince di questo gli stessi cittadini. Il modello non è l’Ungheria, come molti paventano, ma è la Cina, dove il partito unico si affianca a una élite di tecnocrati capaci di far volare alto il PIL. Se tutto comincia formalmente, come dicevamo all’inizio, con il bipolarismo, tutto potrebbe finire con una democrazia ormai asfissiata, neutralizzata. A meno che non si esca dall’eccezione e si torni alla lettera della Costituzione, così che prevalga la politica buona, che vuole partecipazione e interesse collettivo, Partiti e Parlamento, “agire” pratico, collettivo, piuttosto che “fare” tecnico. Ma questa è la semplicità difficile a farsi. Si sa.