Le medaglie di Tokyo, in particolare gli ori conquistati nelle gare di atletica leggera da parte di una squadra caratterizzata da italianissima multietnicità hanno portato buon vento al riaprirsi del dibattito e della doverosa battaglia per modificare la legge del 1992 che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana e questo è senz’altro un merito aggiuntivo.
Le stesse dichiarazioni del presidente del Coni Malagò hanno contribuito al riaprirsi di uno squarcio sul velo che celava e nascondeva la questione della cittadinanza per quasi un milione di giovani ragazzi e ragazze che, nati o arrivati da molto piccoli in Italia, si vedono negati diritti e possibilità e sono oggetto di discriminazione di Stato.
Malagò ha parlato con orgoglio di una squadra dove gli atleti hanno provenienza da tutte le regioni d’Italia e dai cinque continenti e ha dipinto in questo un Paese perfettamente integrato e moderno.
Purtroppo la realtà del Paese non è quella dipinta da Malagò. L’Italia è un Paese dove ancora la parola integrazione è sostituita dall’etichetta di clandestini anche per chi in Italia ci è nato, un Paese a cui si chiede se è “integrato” o no a chi si sente ed è italiano. Verrebbe da chiedersi: ma dove dovrebbe “integrarsi” uno come Marcell Jacobs, giunto dagli Usa a pochi mesi con la mamma italiana a Desenzano e lì cresciuto? O Fausto Desalu, nato a Casalmaggiore, al quale sono stati negati record sportivi perché da italiano non era italiano?
Qualcuno ricorderà le interviste a un Mario Balotelli ancora minorenne, ma già sotto i riflettori per il suo talento calcistico, le sue risposte con marcato accento bresciano, ma a lui – nato a Palermo e successivamente adottato da una famiglia bresciana – fu impedito di essere convocato nelle nazionali italiane fino al compimento del diciottesimo anno.
A chi verrebbe in mente di valutare se sono “integrati” Gimbo Tamberi o Antonella Palmisano?
Basta sentirli parlare questi ragazzi, vederli gesticolare, vedere come si rapportano tra loro per capire se sono italiani, eppure nonostante tutto a loro ancora si fa “l’esame del sangue” e poi, dato che hanno portato sul pennone più alto la bandiera italiana, si lascia correre.
A quasi un milione di ragazze e ragazzi italiani che qui hanno studiato, sono cresciuti, che qui hanno la loro vita non sono riconosciute le medaglie che hanno conquistato con lo studio e con il lavoro. Costretti a convivere con l’essere italiani di serie B, con la sopportazione della discriminazione ingiustificata e senza senso, sono ragazze e ragazzi per i quali l’adozione di un limitato ius soli sportivo significherebbe ancora una volta relegarli a cittadini di seconda serie.
Evviva dunque alle medaglie “multietniche”, ma evviva anche a chi è costretto a sentirsi straniero in patria, ospite non troppo gradito a casa propria.
Chissà, ma se l’allora presidente Napolitano avesse dato una possibilità a Pier Luigi Bersani non saremmo ancora qui a discutere di queste cose. Ma questa è un’altra storia.
Se il Parlamento sarà in grado di cambiare le assurde regole della cittadinanza la medaglia al collo se la metterà l’intera Italia.