Lungo i tornanti della pandemia abbiamo ascoltato molte polemiche su come la comunicazione se l’è cavata di fronte all’emergenza. Un buon numero di esse però erano così strumentali e di breve respiro che bastava l’esercizio del cui prodest per registrare quanto il processo di sostituzione tra politica e informazione è ormai radicato. Ma anche trascendendo dalle prove di partigianeria, peraltro insopportabili quando la scommessa diventa la vita e la morte, un bilancio abbreviato somiglierebbe troppo a uno slogan. Proviamo allora a condurre un ragionamento che faccia cogliere se la comunicazione durante il Covid non sia stata, anzitutto, migliore di quella che lo scoppio della pandemia ha definitivamente licenziato, adottando un punto di vista che ci aiuta a fare storiografia dell’istante (U. Eco).
Un’attenta osservazione degli stili comunicativi, ad alto tasso di ridondanza, dimostra qualche eccesso di gigantografia della pandemia e un mix sempre problematico tra elementi di allarme e capacità di rassicurazione. A fronte di tutto ciò, si capisce meglio quanto può far male, in tempi di crisi, una comunicazione disordinata e sempre esagerata. Il nodo però è un altro, e attiene ai processi di trasformazione del giornalismo su cui evidentemente non siamo arrivati a conclusioni critiche prima della pandemia. Ora appare più chiaro l’impasto sempre più indistinguibile tra informazione, comunicazione e scambi social in rete che occupa letteralmente la nostra vita e soprattutto quella di ragazzi e giovani, non solo quando reclusi negli spazi domestici.
È stato proprio il Covid a evidenziare quanto la comunicazione riesca a saturare proprio i tempi su cui il soggetto esercita una scelta autonoma, fuori dunque dagli orari formativi o lavorativi; non si parla più di tempo libero, perché è francamente sequestrato dalla comunicazione. È in atto, in altre parole, un processo di riclassificazione delle priorità.
L’impatto modificatore dell’emergenza era già chiaro a chi studia eventi eccezionali, dagli attentati terroristici ai terremoti, che comportano nuovi stili di informazione di fronte a eventi imprevisti[1]. Ma anche a chi si è dedicato a queste analisi è sfuggita una radicale differenza, determinata dalla lunga durata. Abbiamo sempre detto che i media italiani imparavano poco da avvenimenti eccezionali, ma dobbiamo ammettere che si è rivelato molto complesso il racconto delle tante puntate del telefilm del male.
Uno sguardo equilibrato di quanto è successo durante i mesi del Covid consente di evitare sentenze ultimative scoprendo che la comunicazione è cambiata, al di là della tendenza alla drammatizzazione sopra segnalata, ma che ereditiamo a ben vedere dal passato. Assemblando i dati sui comportamenti di scelta dei pubblici, dai sondaggi ai report istituzionali, dalle preziose informazioni Auditel a quelle di Confindustria RadioTV, agli studi di Italcommunications e quelli del Censis, emergono trend difficili da contestare. Provando a metterli in ordine prioritario, la sorpresa è un ritorno alla mediazione giornalistica. Tutti i media che accompagnano i loro pubblici con questo prezioso esercizio, dai giornali alle tv, dalla radio all’informazione locale, hanno riconosciuto incrementi di rilevanza in termini di economia dell’attenzione e soprattutto di credibilità percepita. In questo contesto, occorre tener conto di un aumento di responsabilità degli OTT lungo la crisi, fatta anche di reindirizzamento alle fonti istituzionali e di contrasto alle fake.
Ma la vera sorpresa è altrove; persino chi guardava con pessimismo l’evoluzione dei mondi digitali, che sembrava quasi saturare ogni altra fonte informativa, scorge che gli utenti hanno stipulato un armistizio con i social a partire dal tempo dedicato e dal diminuito dividendo di credibilità e fiducia nei contenuti. Osservando la dinamica tra fruizione delle fonti e indice di affidabilità percepita, si nota che le informazioni rese dai siti istituzionali sono diventate finalmente adulte e competitive, se si pensa che prima del Covid questa variabile addirittura non figurava nelle mappe dei nuovi comportamenti. L’interpretazione di queste tendenze dice almeno due promettenti novità: le emergenze possono cambiarci e, addirittura, migliorarci.
Non sappiamo se tali trasformazioni si prolungheranno a distanza dal Covid, ma è già di per sé rilevante la prova di responsabilità sollecitata dalla pandemia. Sappiamo che la comunicazione ci cambia, ma per la prima volta è clamoroso osservare che è vero anche il contrario[2].
È comunque l’insieme dei dati che hanno accompagnato i 18 mesi della pandemia, ora in via di superamento, a descrivere due importanti trend che dobbiamo saper riconoscere: da un lato, abbiamo avuto una riprova lampante di quanto la comunicazione abbia rappresentato una sorta di risorsa securitaria nei tempi di emergenza. Sotto tale profilo, le prove sono imponenti e soprattutto coerenti. Più vistose sono quelle relative all’ampliamento del mercato televisivo in prima serata in coincidenza dei grandi appuntamenti con i tg, ma del resto lo stesso exploit delle reti all news è emblematico nella medesima direzione. A ben vedere, tuttavia, gli indizi sono ben di più e riguardano praticamente l’intera tastiera media/tecnologie, segnalando dunque che c’è spazio per tutti, generalismo compreso, a condizione di leggere i dati in una prospettiva operativa.
Dall’altro, l’elaborazione dell’insicurezza ha certamente variegato i comportamenti di scelta recuperando media che sembravano sul viale del tramonto, ma continuando un lavoro di innovazione e mix tra contenuti comunicativi tradizionali e modalità di consumo streaming che indica un fenomeno di radicale trasformazione del peso dei contenuti, anzitutto televisivi. Durante il Covid essi hanno letteralmente rivoluzionato il mercato, segnalando itinerari di comportamenti comunicativi che rappresentano un vero e proprio passaggio al futuro.
Ecco perché, la riflessione qui proposta legittimamente ambisce a valere anche oltre la fase congiunturale. Tutte le analisi sembrano evidenziare, anzitutto e in modo chiaro, una significativa inversione di un trend storico che torna a premiare siti istituzionali, informazione e televisione. Quest’ultima si rafforza molto sulla platea live ma anche nella sua crescente fruizione in streaming, come se questa doppia modalità riunisse le generazioni di fronte a un rinnovato e quasi imprevedibile focolare mediale/digitale. Dunque, c’è stata gloria per tutti: le fonti primarie di informazione certificata, ‘strumenti-principe’ di un servizio universale forse frettolosamente derubricato nella stagione pre-Covid, sono tornate ad essere in tempo di emergenza sanitaria insostituibile riferimento di affidabilità. Per non parlare della radio che, pur rimanendo apparentemente indietro dal punto di vista dell’audience, come sempre in Italia, ottiene il clamoroso primato di essere la scelta informativa che raddoppia l’indice di consumo dal punto di vista della affidabilità riconosciuta al mezzo.
La necessità di assumere un atteggiamento di cautela, non sopravvalutando dati riferiti a una condizione umana dei pubblici iperstimolata dall’insicurezza e dalla paura, è ovviamente chiara al ricercatore. Ciononostante, i dati e le loro linee di tendenza inducono ad individuare cambiamenti non connotabili come semplici e transitorie scelte d’emergenza. È singolare annotare che questo trend è segnalato da tanti centri di ricerca, ma ha trovato nella Relazione annuale Auditel 2021, presentata il 24 maggio al Senato, un ulteriore e importante attestato empirico.
Una prova non trascurabile sotto questo profilo è fornita dagli scostamenti relativi ai consumi televisivi analizzati per classi anagrafiche dal Rapporto Confindustria RadioTV, a partire dai dati Auditel. In riferimento alla fascia d’età dei giovani 15/24 anni, quella caratterizzata da un’intensa vocazione al nuovo e alla mobilità degli stili mediali, si registra durante il primo lockdown quello che è probabilmente il picco assoluto nell’interazione media/Covid: +60,6% rispetto allo stesso periodo del 2019. È vero che tra il primo e il secondo periodo di pandemia e di adozione di misure restrittive, il cluster giovanile evidenzia innegabilmente un processo di ritorno a consumi mediali abituale, con una marcata disponibilità a recuperare l’assetto consueto, ma lasciando sopravvivere un non trascurabile ‘zoccolo duro’ che non rinuncia così presto alla ‘riscoperta della televisione’. Non a caso, durante il secondo lockdown 2020, il saldo complessivo dei consumi di tv rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente raggiunge comunque la significativa cifra del +19,4%, che rimane la più alta rispetto a tutte le altre fasce di età.
È sulla base di questi dati secondari di ricerca che la riflessione fin qui condotta assume un particolare significato sotto il profilo del Servizio Pubblico universale e della stessa libertà di informazione. Mai come in tempi di progressiva affermazione degli Over the Top, che si è rivelata contestuale alla moltiplicazione delle forme di disinformazione e fake news, si può capire l’essenzialità di un servizio universale. Ogni altra scelta strategica rappresenta una vera e propria dimissione rispetto all’ invasiva dominazione degli immaginari da parte dei grandi players internazionali. Questo trend è chiaro agli studiosi, che peraltro rispetto al passato tacciono su un tema come questo, debole del resto nel dibattito culturale pubblico. Le conseguenze sociali di una sorta di una sorta di egemonia comunicativa “imposta” da centrali internazionali non appaiono nei suoi termini crudi perché istituzioni, partititi ed emittenti ritengono che nella platea complessiva della comunicazione i pubblici adulti ancora giochino una partita di equilibrio tra media mainstream e piattaforme digitali.
È una scelta, questa, di scarsa lucidità e capacità di analisi dei trend; infatti, se da un lato la percezione attuale è fondata, non rilevare la proiezione al futuro è frutto di una banale per quanto umanissima tendenza alla rassicurazione. Il risultato, infatti, è quello di abbandonare le giovani e giovanissime generazioni al monopolio oligarchico degli imperi digitali[3].
È proprio qui che va invece aperta una vertenza: occorre interrogarci su chi forma davvero i giovani di oggi, recuperando una spinta decisiva per la scuola nella sua funzione di media education, valorizzando così anche i dati che delineano un rapporto stretto e comunque preferenziale tra bambini e device digitali già negli anni prima della scuola. Basterebbe questa riflessione, meglio ancora se supportata da dati più sistematici, a dichiarare uno stato di emergenza nella formazione, che coinvolge ovviamente famiglie e insegnanti e attende che una politica con il gusto del futuro colga lucidamente la necessità di un intervento.
[1] Su questi temi cfr. M.Morcellini, M.Gavrila, “Il terremoto della comunicazione”, in Mario Morcellini, Mihaela Gavrila (eds) MediaTerrorismi. L’impatto della comunicazione e delle reti digitali sull’insicurezza percepita, Egea, Milano (in corso di pubblicazione). Si veda anche Mario Morcellini (ed), Torri Crollanti. Comunicazione, media e nuovi terrorismi dopo l’11 settembre, FrancoAngeli, Milano 2003.
[2] Cfr. M. Morcellini, Mediacovid. Ritorno alla mediazione, in “Formiche”, n.170, giugno 2021.
[3] Cfr. a tal proposito il numero monografico n. 17 della rivista “Comunicazione.doc”, dal titolo Quando la tecnologia stressa la formazione, Fausto Lupetti, Bologna 2017.