La possibile esplosione del M5S non è un affare interno a una singola forza politica. Parliamo del primo gruppo parlamentare di Camera e Senato, del simbolo che ha preso più voti alle elezioni generali del 2018. Il 33 per cento: quasi un italiano su tre votò per la proposta di Beppe Grillo. Se quell’area va in frantumi non credo che scompariranno le ragioni per cui un pezzo di paese si spostò con convinzione sul partito, che pur dichiarandosi né di destra né di sinistra, propugnava la necessità di coniugare pulizia morale con giustizia sociale per i più deboli.
In questi tre anni e mezzo però è cambiato tutto o quasi tutto. Tre governi: uno di destra, uno di sinistra e uno con tutti dentro, eccetto la Meloni. E i Cinque Stelle hanno governato con ogni formula politica, garantendo sempre la stabilità di quei governi perché i numeri imponevano questo. Se saltano in aria, il primo effetto sarà una inevitabile rimodulazione della maggioranza parlamentare che sostiene Draghi, con un equilibrio oggettivamente più favorevole alle ragioni della destra. Per questo non si può fare finta di niente.
1. La defenestrazione di Giuseppe Conte da parte del fondatore e garante del M5S ha come primo effetto indiscutibile il rallentamento del processo di rifondazione di un centrosinistra nuovo, innanzitutto in rapporto con le due aree che più di tutte avevano sostenuto lo sforzo della coalizione giallorossa: Pd e LeU.
2. Lo sbocco di un M5S senza Giuseppe Conte può condurre alla suggestione di un ritorno alle origini, a un Movimento slegato da qualsiasi dinamica coalizionale, che si ripulisce dalle scorie del governo e prova a rilanciare un’identità alternativa ed esterna ai blocchi politici ed elettorali tradizionali. La tendenza mi sembra portare in questa direzione, persino al di là delle dichiarazioni ufficiali.
3. Forse occorrerebbe riflettere di più sulla corsa a demolire il tentativo di Giuseppe Conte di collocare il Movimento nel centrosinistra in maniera stabile e duratura. Questo attacco è arrivato anche da aree culturali ed editoriali collocate nel campo democratico e che – pur di cancellare l’anomalia di una leadership popolare esterna ai salotti buoni – sembrano dare ragione alle bizze di Beppe Grillo. La classica eterogenesi dei fini. Il classico tanto peggio tanto meglio delle élite italiane.
4. La prima conseguenza di questo riposizionamento sarebbe oggettivamente una maggiore debolezza delle forze progressiste oggi impegnate nel governo di unità nazionale. I segnali sono già evidenti. Lo racconta la faticosa mediazione sui licenziamenti, il tentativo di colpo di mano sui subappalti, l’attacco al reddito di cittadinanza. In un governo senza formula politica – come fu descritto dal Presidente Mattarella – il rischio che la destra economica finisca per dare tutte le carte è reale.
5. Se sulla politica economica rischiamo un forte arretramento, sulle scadenze istituzionali rischiamo addirittura il patatrac. La legislatura si è tenuta in piedi anche perché bisognava portare al Quirinale una personalità non espressione della destra sovranista, chiaramente collocata nel solco della Costituzione repubblicana e antifascista. Questa possibilità può allontanarsi oggettivamente, con il centrodestra che chiamerebbe tutta la posta.
6. Il declino dell’alleanza giallorossa può portare l’area progressista ad avere un rinculo pesantissimo. Vedo ripartire una discussione un po’ oziosa e francamente incomprensibile sulla cosiddetta agenda Draghi come punto di riferimento imprescindibile del Pd. Mi sembra di rivedere un film già proiettato dieci anni fa, quando si parlava di Agenda Monti e si raccomandava una sterzata al centro dell’Italia Bene Comune di Bersani. Un tentativo di riabilitare il centrosinistra come forza di stabilizzazione moderata del sistema politico. Sempre al governo, con qualsiasi formula e con un’identità ancora più sfumata di quella attuale. Davanti a una destra così ideologica il risultato sarebbe già abbondantemente scritto
7. E invece si può aprire una fase interessante, persino capace di rimodellare l’intero schieramento attorno al tema che il centrosinistra aveva ammainato improvvidamente, lasciando spazio alle scorribande grilline: la questione sociale. Servirebbe un atto rifondativo dell’intero schieramento, perché così come siamo messi non solo non competeremo alle prossime elezioni, ma rischiamo di condurre l’intero esercito a una disfatta culturale e politica. Il tema è che vogliamo fare, chi vogliamo rappresentare, per cosa vogliamo lottare, prima ancora che con chi vogliamo apparentarci.
8. Non bastano due grandi convegni per produrre una novità. Se le Agorà del Pd finiscono per essere soltanto questo non sposteranno granché nel senso comune. Se sono invece l’occasione per una chiamata larga che metta anche in discussione forme, nomi, ragioni sociali la situazione può cambiare. E si possono occupare quei vuoti lasciati da altri che l’attuale configurazione delle forze progressiste non consente di colmare. Per attraversare un tempo nuovo e per rappresentare un’alternativa credibile alla destra ci vogliono anche delle rotture. La pandemia ci dice chiaramente che la sinistra non si salva con le operazioni cosmetiche. Né aggiungendo qualche fogliolina a un albero un po’ più grande, ma con le radici inaridite.
9. Sono venuti al pettine nodi strutturali sulla natura del nostro capitalismo, sul rapporto tra democrazia, mercato e conflitto sociale, sul ritorno della centralità dei beni comuni. Non si può uscire dalla crisi con un aggiustamento delle ricette di un altro tempo. Il nostro campo riesce a rivitalizzarsi, a riconquistare un’anima soltanto se ha la forza di costruire un’agenda autonoma, non se sceglie di adottare quella degli altri. Le formule elettorali verranno dopo.