Domenica 30 maggio 2021. È mezzogiorno. Le campane suonano quattordici rintocchi. È il minuto di silenzio che il Piemonte dedica al ricordo delle quattordici persone che una settimana fa hanno perso la vita nella cabina della funivia del Mottarone.
Domenica scorsa. Mezzogiorno è passato da poco. Sono alla scrivania, davanti alla finestra. Sento un elicottero, poi un altro, un altro ancora. Il frastuono è ormai familiare ma incuriosisce e preoccupa sempre. Il Giro d’Italia passerà di qui tra qualche giorno, non è ancora tempo di riprese televisive. Che sarà mai successo per un simile affollamento di velivoli? Mi affaccio. Il Mottarone è vicino, ben visibile, una decina di minuti in auto, una manciata di chilometri in linea d’aria. Il taglio tra gli alberi con i piloni della funivia che da Stresa sale alla cima è netto come un’incisione chirurgica. È lì che convergono gli elicotteri. È lì che rimangono sospesi in aria. Il suono di tante sirene si affievolisce lentamente, allontanandosi da Verbania.
Pochi minuti e l’incidente del Mottarone diventa la tragedia di cui tutto il mondo parla. Nei giorni seguenti Stresa e Verbania vengono invase da giornalisti di tutto il mondo. La miriade di notizie e immagini che da domenica pomeriggio ci affliggono rattrista, inquieta e sconvolge. Quello che è accaduto non è accaduto in un luogo lontano ma davanti alle nostre finestre.
Le vittime, ricomposte nella camera mortuaria in cui un po’ tutti abbiamo pianto amici e parenti, le sentiamo ancora più vicine. I volti dei protagonisti della tragedia, vittime o criminali che siano, ci sono famigliari. Il sopravvissuto, il sindaco, il gestore, sono per molti il Dario, la Marcella, il Gigi. L’articolo davanti al nome, come usiamo noi lombardo – piemontesi. È successo qui e più di altri abbiamo bisogno di sapere, capire, riflettere, trovare le ragioni e i perché di una tragedia che non sarebbe dovuta accadere e invece è accaduta.
Per ora è un’enorme tristezza. In questa ricerca di ragioni e verità, increduli che sia successo proprio qui, si affollano commenti e giudizi. Le prime pagine dei giornali non parlano d’altro. Illustri commentatori si affrettano a dire la loro. Così come per mesi ci siamo improvvisati virologi, con la stessa incompetenza con cui diventeremo commissari tecnici della nazionale di calcio tra qualche settimana, diventiamo esperti di funivie, freni di emergenza, ”forchettoni”, teste fuse, funi portanti e trainanti.
I giudizi sull’operato dei responsabili sono sferzanti. Una condanna senza appello, “buttate la chiave!”. Si scava senza pietà nelle loro vite a cercare le ragioni di quel comportamento criminale. Un po’ stupisce che nella notte di sabato il Gip non convalidi la detenzione. Il caposervizio reo confesso va ai domiciliari, il direttore di esercizio e il gestore tornano liberi. A poco a poco si spegneranno i riflettori, la giustizia, come si dice, farà il suo corso e auguriamoci che la verità emerga, si accertino le responsabilità e chi ha sbagliato paghi; soprattutto se l’errore è stato una scelta consapevole, magari per un ignobile miserabile vantaggio economico.
Dobbiamo però allargare lo sguardo su una tragedia paradigma di un’epoca in cui persino la morte è sacrificata e piegata al profitto. Negata e rimossa in nome di una fune che non si “spezzerà mai “ e invece si spezza: anche chi sapeva del blocco del freno di emergenza su quella cabina ci saliva e lasciava che ci salissero i figli. Non può bastare incolpare l’avidità, il cinismo, l’arroganza, la folle incoscienza degli imprenditori, l’etica perversa del capitalismo. Non basta, occorre trovare il modo perché simili tragedie non accadano. Lo diciamo ogni volta, ma troppe tragedie si ripetono e non sempre per fatalità.
Viviamo in un Paese in cui troppe infrastrutture, ormai vetuste, costruite quando eravamo bambini, con le tecniche di allora, rimaste senza manutenzioni per anni, cadono letteralmente a pezzi. Oggi una funivia, ieri un ponte, domani chissà. Ferrovie, treni, autobus, viadotti, palazzi. Mezzi e strutture che utilizziamo tutti i giorni, dobbiamo poterlo fare senza paura, in sicurezza. Senza cedere alla retorica vanno affrontati con realismo nodi essenziali che sappiamo essere complessi e delicati ma non per questo possiamo eludere. Lo Stato, senza diventare un oppressore, ha il dovere di controllare e verificare, non può delegare a nessuno questa funzione, non può intervenire solo per identificare e punire un qualche responsabile e non può nemmeno trincerarsi dietro le barriere della burocrazia. Non serve a nessuno condannare un Sindaco perché nella piazza del paese un delinquente ha per inconfessabili motivi provocato un incidente. Verifiche e controlli non possono trasformarsi in un inestricabile tourbillon di burocrazie e carte bollate.
Offro un gelato a chi trova qualcuno che abbia letto le quattrocento e passa pagine in rigoroso stile “taglia e incolla” di POS e PSC di un banale cantiere; un caffè a chi conosce qualcuno che non si sia distratto allo sciorinamento senza fine di leggi e norme con relative pene e sanzioni durante l’ennesimo corso di aggiornamento per RSPP, magari di una tabaccheria; una birra a chi conosca l’utilità della“traduzione asseverata” (con marca da bollo da euro 16) del timbro di annullamento apposto sul libretto di circolazione di un’utilitaria regolarmente sdoganata e in attesa (da sei mesi) di essere immatricolata in Italia.
Certo, verifiche e controlli sono difficili, gli ispettori non sono sufficienti. Ma quante energie vanno disperse, quanti impiegati e funzionari sono quotidianamente alle prese con inutili scartoffie, imprigionati come noi nelle maglie delle carte bollate, anziché dedicare il proprio tempo alla verifica di ponti, strade, rotaie e teleferiche? Torniamo alla nostra funivia, un paradigma anche la sua storia di bene pubblico gestito da privati, anzi, da un privato, perché uno solo è stato sempre il gestore della funivia.
Tranne che per quattro anni, una ventina d’anni fa. La concessione venne affidata a “Con.Ser.VCO”, l’Azienda Speciale Consortile che gestiva e gestisce localmente trasporti e raccolta rifiuti. La gestione pubblica curò l’imponente manutenzione e rimise in sesto la struttura ormai logora. Mettono i brividi le parole dell’allora presidente di Con.Ser.VCO, Claudio Zanotti: “Noi non avremmo mai messo quei forchettoni, mai. Avremmo tenuto ferma la funivia”. Anni di furfanterie ci hanno convinti che il pubblico non sia in grado di gestire strutture e servizi. E li abbiamo sacrificati sull’altare del mercato. Non è detto sia sempre la scelta giusta. Non è detto debba continuare all’infinito.
Oggi l’Italia sta attraversando un momento decisivo, difficile e complesso ma fondamentale: tutto va rivisto, riconsiderato, ripensato. Nelle norme e nella cultura. Che la mano pubblica torni a farsi sentire. Che lo Stato, il pubblico, torni a gestire strutture e servizi, torni ad occuparsi direttamente di attività che si sono talvolta rivelate un affare per i gestori privati e una voce di spesa per il pubblico. Forse è il momento di pensarci. Non sarà facile, ma è tempo che l’assioma di Ronald Reagan “Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema” venga ribaltato.