Tra le grandi questioni esplose con l’avvento della crisi pandemica è innegabile che vi sia il tema del diritto allo studio, tornato finalmente centrale nel dibattito pubblico nazionale dopo alcuni anni di sostanziale marginalità. Tuttavia, i termini in cui si è sviluppata la discussione non sono stati particolarmente positivi: nella maggior parte dei casi infatti si è trasceso nella più sfacciata strumentalità, con prese di posizione da parte dei grandi soggetti politici nazionali quasi sempre finalizzate ad accendere polemiche elettoralistiche.
Onestà intellettuale ci obbliga a riconoscere che l’azione del ministero dell’Istruzione nella gestione dell’emergenza è stata insufficiente. Fino ad oggi, infatti, non si è saputo rispondere in modo autorevole alla pur inedita contingenza che attraversiamo: in parte pesano gli errori della ministra Azzolina, intestarditasi per mesi sulla questione dei banchi mentre diventava sempre più evidente l’impossibilità di riprendere il normale corso delle attività scolastiche senza interventi strutturali sul sistema di trasporto pubblico locale, in parte perché è difficile risolvere in pochi mesi i problemi nati dagli anni di disinvestimento e di snellimento degli organici che avevano già messo in ginocchio il sistema.
Capitolo diverso quello della ricerca: se, soprattutto nella fase iniziale della pandemia, si era imposto un mantra sulle capacità salvifiche dei ricercatori, l’interesse nei confronti di questo mondo è rapidamente declinato non appena sono emersi i nodi storici da affrontare, a partire dal precariato strutturale e dalla scarsità di investimenti.
L’esperienza del governo Conte II sembra indicare che le difficoltà nell’ottenere un’azione efficace in questi due campi non dipendano dalla strutturazione istituzionale: la bipartizione del MIUR non sembra aver portato alcun particolare beneficio, ma neppure è da ritenere che un nuovo accorpamento migliorerebbe la situazione. Questo non solo per i fisiologici ritardi che seguirebbero al ripensamento delle strutture amministrative, ma anche perché la scuola rischierebbe di finire con l’assorbirne nuovamente tutta l’attenzione.
Ciò che manca davvero è la volontà politica di affrontare i nodi e il coraggio di scioglierli.
È inaccettabile, ad esempio, che tardi ancora la revisione dei programmi scolastici, resa ancor più urgente alla luce delle sempre più rapide trasformazioni sociali che il mondo sta attraversando. Allo stesso modo è diventata indifferibile la discussione su come strutturare in modo stabile il sistema di reclutamento, magari a partire dall’elaborazione di criteri che interrompano il prosperare dell’opaco sottobosco che lucra sulla compravendita di quegli attestati che permettono di acquisire qualche punto in più.
Forse è addirittura più grave la situazione universitaria: il nostro sistema accademico è da anni imbrigliato in una riforma voluta dal centrodestra, riforma che ha gravemente compresso gli spazi di democrazia interni agli atenei, riducendo i luoghi del confronto interdisciplinare e la biodiversità della ricerca per renderli compatibili con un modello arido e burocratico di scienza al servizio del privato e incistata di sperequazione territoriale.
Tutto questo, assieme allo sdoganamento totale della precarietà, ha messo seriamente in discussione la libertà complessiva della ricerca scientifica, causando peraltro l’indebolimento della capacità del nostro sistema di indagare ciò che non è mainstream all’interno delle diverse discipline. Anche qui, onestà intellettuale vuole che si ammetta che il ministro Manfredi, persona esperta e stimabile, non ha fatto granché per smantellare questa visione aziendalistica della ricerca ormai largamente superata.
Vi è poi il tema del digital divide, esploso con l’avvento della didattica a distanza ma in realtà denunciato dalle associazioni studentesche già da diversi anni. Oggi centinaia di migliaia di studenti sono sostanzialmente tagliati fuori dal sistema scolastico e universitario. Come ben spiegato in questi ultimi mesi da Marco Rossi-Doria, tra gli effetti della pandemia rischia di esservi una vera e propria crisi educativa che aumenterà i divari economici e sociali. Per non parlare poi della dispersione scolastica, cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi dodici mesi.
Se si vuole realmente battere la strada del rilancio del nostro Paese, queste questioni sono ineludibili. La crisi sanitaria che ha contraddistinto l’ultimo anno ha mostrato che alla marginalizzazione di istruzione e ricerca segue sempre un conto salatissimo, e nessuno può dire che i problemi qui brevemente tratteggiati non fossero già da tempo sotto gli occhi di tutti: non si è voluto affrontare questi nodi quando c’era tempo per farlo, ma il tempo perduto non si recupera rapidamente.
Il governo Draghi che si insedierà tra pochi giorni dovrà prendere posizioni nette, partendo da quanto di buono fatto nell’ultimo anno e mezzo e dando a istruzione e ricerca un ruolo centrale nel nuovo Recovery Plan.
Un primo intervento auspicabile potrebbe essere la costituzione di un fondo nazionale per il contrasto del digital divide. Non si può chiedere agli insegnanti di continuare ancora a sopperire al peso del ritardo tecnologico con cui si sta confrontando non solo il mondo della scuola, ma tutto il Paese. Allo stesso modo non possiamo accettare l’idea di lasciare indietro chi non ha a disposizione una connessione o strumenti adeguati alla didattica a distanza. Alcuni atenei, così come alcuni enti locali, stanno provando a mettere in campo misure emergenziali per affrontare il problema, tuttavia sarebbe certamente più opportuno e più efficace intervenire con un coinvolgimento diretto di Governo e Parlamento.
Per quanto attiene invece alla necessità urgente di rilancio del comparto universitario e della ricerca, non si può prescindere da un rinnovato dialogo con le parti sociali. È probabilmente questo il livello più sacrificato nelle scelte politiche degli ultimi vent’anni, quando si è scelto di demandare di fatto ai Rettori il compito di concordare gli orientamenti strategici tra mondo accademico e vertice ministeriale, lasciando gli organi di rappresentanza del mondo universitario in una condizione di scarsa incisività sui punti davvero qualificanti delle scelte reali.
Se il riconoscimento di un maggior peso all’interlocuzione con parti sociali e rappresentanze dipende dalla volontà dei singoli ministri, una proposta di ragionamento potrebbe essere la determinazione di un contesto in cui questi soggetti possano dialogare non solo sulla gestione interna del mondo della conoscenza, ma anche e soprattutto sugli orientamenti generali del sistema Paese, consentendo un nuovo protagonismo dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
A tal proposito sarebbe interessante ragionare sulla possibilità di istituire un luogo di confronto stabile dove questa discussione possa svolgersi in modo costruttivo, un vero e proprio tavolo permanente che veda la presenza dei Ministeri dell’Istruzione, dell’Università e Ricerca, delle Infrastrutture e dello Sviluppo economico. Includendo a questo tavolo anche i delegati dei consessi di rappresentanza del mondo della conoscenza, come i Presidenti del CUN, del CNSU, del CNPC e del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, si potrebbe dare voce alle rappresentanze e allo stesso tempo costruire una visione d’insieme sulla direzione da dare alle principali strutture materiali e immateriali del Paese.
Si verrebbe così finalmente a creare un luogo di incontro e confronto su quelle scelte che negli ultimi anni sono state per lo più “calate dall’alto” e che, lo si può dire in tutta onestà, a fronte di una sostanziale rinuncia al dialogo con le realtà sociali non hanno neppure ottenuto un sostanziale miglioramento delle condizioni del Paese.
La fine dell’esperienza del governo Conte II e l’avvento del governo Draghi, a prescindere dalla discussione sul perimetro della maggioranza, impone alla cosiddetta “Alleanza per lo sviluppo sostenibile” invocata negli scorsi giorni da Giuseppe Conte un rilancio che parta dai contenuti. In tal senso i temi legati al diritto allo studio, alla ricerca e al sistema educativo di istruzione e formazione possono rappresentare un primo grande banco di prova, in Parlamento e fuori: apriamo una discussione larga, laica e condivisa, non perdiamo anche questa ennesima occasione!