Sono il segretario di una organizzazione giovanile che ha nel nome la parola sinistra. Ne vado orgoglioso. Per cui il pezzo di Concita De Gregorio pubblicato ieri da Repubblica – non esattamente generoso con la categoria – mi ha particolarmente colpito. In punta di piedi, mi permetto di fare quattro considerazioni.
La prima è che è vero: la sinistra è debole, disorganizzata. Il Pd è figlio del declino rovinoso delle soluzioni che i progressisti hanno saputo offrire alle democrazie dell’Occidente nell’ultimo quarto di secolo. Manca di identità. Serve ripensare, ricostruire. Non è un problema di carisma di un leader, né tantomeno di geometrie, di tattica o di manovra. È un punto di pensiero, linguaggio e comunità. La destra, nel mondo, ha elaborato una sua proposta fortemente identitaria, capace di rispondere alle paure, alla rabbia di milioni di cittadini beffati dalla globalizzazione che chiedevano solo di essere difesi. La domanda da farsi sarebbe: come risponde la sinistra? La crisi, da questo punto di vista, ha aperto uno spazio importante stimolando la nascita di una coscienza collettiva attorno al valore dei beni pubblici fondamentali. Da sempre centrali nella nostra agenda. Sono convinto che sia meno attorno alle qualità oratorie di questo o quel segretario, e più attorno a questa centralità che sia necessario lavorare per costruire un nuovo campo.
D’altra parte – e vengo alla seconda considerazione – il renzismo non può essere derubricato al carisma di Matteo Renzi, né alla sua capacità di guidare le conferenze stampa. È stato un disegno politico, per giunta forte. Una strategia che puntava a governare al centro il Pd prima, l’Italia poi, e che per un breve periodo ha anche prevalso. Ma il 4 Marzo del 2018 quel disegno è stato sconfitto nel Paese in modo netto ed inequivocabile. Oggi esiste solo nel palazzo, alimentato da manovre tutte politiciste, pericolose e spericolate. Non è per quelle vie che la sinistra potrà recuperare la fiducia di chi ha smesso di votarla negli ultimi dieci anni.
Ad oggi l’unica strada che consente di tenere all’opposizione la peggiore destra della storia repubblicana – e in prospettiva di poterla battere – è quella immaginata da Pier Luigi Bersani: un’alleanza strategica tra forze progressiste e Movimento 5 stelle. Alleanza cercata dal 2013 e puntualmente affossata da quegli “eredi della DC” che teorizzavano e praticavano – con i voti raccolti dal PD di Bersani – l’occupazione del centro e la riscoperta in chiave italiana della terza via.
Quarta e ultima considerazione. L’alleanza tra progressisti e Cinque stelle ha consentito la nascita di un governo che, prima di imbattersi nel Covid, ha ricucito il filo con il sindacato dei lavoratori, ha riconquistato centralità in Europa, ha teorizzato e praticato l’intervento pubblico nell’economia, ridato forza alla sanità pubblica. Non esattamente la destra al potere. Questo mi porta a dire che una nuova classe dirigente, a sinistra, c’è. Penso a ministri poco più che quarantenni che si sono caricati sulle spalle l’Italia in uno dei momenti più bui dopo la guerra. Saranno inusuali e schivi nella comunicazione. Avranno pure tratti novecenteschi, ma non li definirei prudenti. Casomai coraggiosi.