Quello che fu il più grande partito comunista d’occidente oggi avrebbe compiuto cento anni. Un secolo di storia impone il ricordo e la celebrazione. Il ricordo dei fatti, la celebrazione degli uomini e delle donne.
Perché la storia del P.C.I. fu senza dubbio una storia grandiosa che ha coinvolto milioni di persone. Dalla scissione di Livorno agli anni ’90 il Partito Comunista Italiano non ha solo percorso il Novecento e l’Italia, ma ha contribuito a scriverli. Gli stessi capisaldi della nostra Repubblica sarebbero impensabili senza il contributo del P.C.I.: l’antifascismo, la guerra di Liberazione, la Costituzione. E poi le importanti battaglie della seconda metà del secolo che hanno cambiato il volto della nostra società.
Ma dal punto di vista politico non ci si può limitare al ricordo, bisogna interrogarsi su quella storia, analizzarla con senso critico,
un processo che stenta a decollare in un dibattito pubblico ancora troppo polarizzato tra la condanna senza appello e la nostalgia. Il tema ben inteso non è quello di rifondare fuori tempo massimo un partito ormai sciolto e neanche quello di interrogarsi in poche righe sulle ragioni del comunismo bensì di chiedersi se quella storia specifica, quella del P.C.I., non possa ancora consegnarci suggestioni e insegnamenti ancora validi per la politica quotidiana. Perché che ci piaccia o meno il Pci è stato l’ultimo partito della sinistra italiana che è riuscito a coniugare un ampio consenso con una visione politica
nettamente di sinistra.
Si dirà che la storia dei partiti di massa è ormai segnata e che determinate dinamiche sono irripetibili eppure credo che questo sia vero solo in parte. Non dovremmo rassegnarci all’idea di una politica scarsamente credibile, poco coinvolgente e puramente elettoralistica e il P.C.I. in questo senso può insegnarci molto. Esistono princìpi metodologici della politica che non sono morti perché hanno perso di senso nel presente, ma perché sono stati messi da parte per scelta. Ne citerò due a titolo esemplificativo: la democrazia interna e la lettura storica dell’agire politico.
Emanuele Macaluso, che ci ha lasciato in questi giorni, interrogato sulla prima Repubblica, rispose: “Io non rimpiango la prima
Repubblica. Io rimpiango le sedi di confronto e di lotta politica che erano i partiti. Oggi non esistono luoghi dove si discute, si svolta, si dissente, si formano opinioni. Una volta la direzione del Pci era di 21 membri. Tutti avevano diritto alla parola. Adesso sono quasi 300, con un esecutivo di 70 persone. Due o tre persone dicono una cosa, poi si chiude e arrivederci e grazie”. Macaluso poneva in maniera netta il tema della democrazia interna che non è solo rispetto della pluralità, ma messa in pratica di procedimenti collettivi di dialettica e interpretazione della realtà. Quelle poche parole sono un attacco al partito leggero, leggero non perché di pochi, ma perché gli iscritti e i militanti perdono peso specifico a favore degli elettori verso i quali si relazionano direttamente i pochi leader. Ma cosa sarebbe stata la storia del socialismo, dei progressisti se fosse stata solo storia di elettorato e non avesse invece incontrato nei partiti un luogo concreto di democrazia e uno strumento di cambiamento della realtà? E noi siamo davvero convinti che senza questo tipo di partito si possano intraprendere percorsi politici di liberazione che vadano oltre la seppur importante rappresentanza istituzionale?
Io sono convinto di no e sono altrettanto convinto che questo tema può essere uno degli elementi di rilancio dei partiti contemporanei, se affrontato con intelligenza.
Un’altra delle caratteristiche fondamentali del P.C.I. fu la consapevolezza di sapersi intendere come parte di una battaglia
politica generale che si combatteva contemporaneamente nel mondo, nonché di saper interpretare ogni singola lotta come segmento di una lotta più grande, trovando così il proprio senso nella storia. Certamente queste furono peculiarità di tutto il movimento socialista e comunista, ma quand’è che hanno perso il loro senso? Non dovrebbe forse essere tutt’oggi vero per le forze progressiste nel mondo che ognuna è solo un pezzetto di un processo più grande, soprattutto nell’era della globalizzazione? Come si può avere una visione temporale della politica limitata all’ultimo decennio per il passato e
alle successive elezioni per il futuro? E allora andrebbe recuperato da un lato quello che un tempo si sarebbe chiamato internazionalismo riallacciando rapporti reali con i movimenti progressisti nel mondo e dall’altro tornare ad intendere il partito non come lo strumento per vincere le prossime elezioni, ma come lo strumento per cambiare il Paese nei prossimi cinquant’anni. La visione lunga.
Dovremmo forse prendere l’abitudine di essere conseguenti ogni volta che raccontiamo la grandezza del passato in quanto quella grandezza fu figlia di scelte precise che andrebbero concretamente riprese adattandole al presente. In questo modo il P.C.I. non sarà solo un bell’orpello delle singole biografie, ma la fonte a cui può bere una forza politica giovane e vincente, un partito che ancora non c’è.