Le due crisi economiche del 2008 e del 2020, quest’ultima indotta dal Covid 19, esasperano il mantra reiterato della produzione. L’industria italiana registra in questi mesi del 2020 un’importante flessione della produzione da inizio anno quando l’Istat per il 2019 aveva già stimato un calo dell’1,3% rispetto all’anno precedente, sia in termini grezzi che al netto degli effetti di calendario.
Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, nel suo discorso di insediamento, ha chiesto al Governo investimenti pubblici in digitalizzazione, infrastrutture e trasporti e contestualmente ha sostenuto la necessità di intervenire sulle attuali forme contrattuali. Nell’intervista dell’8 ottobre 2020 a Piazzapulita ha dichiarato che con la scadenza, qualunque essa sia, del blocco dei licenziamenti, introdotto per la prima volta dal DL “Cura Italia” per fare fronte alla crisi economica causata dalla pandemia, le aziende procederanno a riorganizzazioni, che consisteranno soprattutto in un cambio del personale dovendo scegliere, a suo dire, fra chi non è in grado di affrontare le nuove mansioni richieste e chi è preparato alle nuove sfide professionali. Corsi di formazione per i licenziati serviranno a garantire non un posto di lavoro fisso, ma l’occupabilità delle persone, concetto che rende chiarissima la precarietà e l’orizzonte oscuro che aspetta chi si troverà espulso dal lavoro, magari alle soglie di un’età non più favorevole al suo reinserimento. Il finale dell’intervista, peraltro del tutto prevedibile, è stato un affondo sulla produttività: i rinnovi contrattuali saranno possibili solo in relazione a un aumento della produttività, “uno dei veri mali del nostro paese”, senza spiegare, anche solo facendo riferimento alla più riduttiva definizione del termine, come si possa, ad esempio, aumentare le ore di lavoro settimanali in un paese che ne conta già più di molti grandi paesi europei.
Nell’intervento del Presidente di Confindustria non si trova nessun richiamo alla responsabilità degli imprenditori in merito alla necessità di reinvestire parte degli utili e delle ricchezze accumulate nei periodi di prosperità, per introdurre nelle proprie aziende quelle innovazioni sostanziali soprattutto di processo ma anche di prodotto che rappresentano l’unica, concreta via per incrementare davvero la produttività. La crisi, per Bonomi, deve essere affrontata dallo Stato e dalla forza lavoro, non tanto dall’impresa. Nessun moto di orgoglio che riconosca il compito dell’imprenditore di impegnarsi in prima persona in questo tragico momento per affrontare la crisi economica; nessuna consapevolezza che il principale attore della rinascita di un’economia in crisi è chi si trova a capo dell’impresa stessa, poiché la titolarità di questa implica iniziativa, impegno e, soprattutto, responsabilità.
Tuttavia, eventi storici unici come le pandemie, che investono periodicamente vaste aree del pianeta, provocano cambiamenti profondi e radicali nella vita economica, sociale e psicologica delle popolazioni, così da modificare, anche se in modo talvolta impercettibile, alcuni elementi caratteristici della vita quotidiana delle persone, rivelando mutamenti radicali della realtà che corrispondono anche alla rottura di schemi concettuali considerati scontati dalla cultura autorevole. In questa prospettiva, nel periodo storico segnato dall’epidemia di Covid 19, si possono già scorgere alcune e apparentemente lievi flessioni nella considerazione del valore della produzione e del lavoro che la genera. L’attenzione delle persone si sta spostando sempre di più da consumi spesso superflui, orientati e sollecitati da persuasori più o meno occulti, a prodotti finalizzati alla difesa della salute, della sicurezza personale e della famiglia, al potenziamento degli strumenti di comunicazione e al sostegno dell’apprendimento dei figli, privati dell’insegnamento in presenza.
Se le condizioni di vita diminuiscono le opportunità di acquisto e di spesa, appare più importante spendere bene il denaro, e il focus si concentra sempre di più sulla qualità dei prodotti, sulla loro durata e sulla loro effettiva necessità. Si regala e si acquista ciò che serve, o ciò che è veramente bello e che arricchisce, non più una cosa qualunque. D’altra parte, chi tra gli imprenditori ha operato con lungimiranza nelle condizioni di crisi in corso dal mese di marzo 2020 che, tra l’altro, hanno diffusamente imposto di operare in lockdown, si è adoperato per potenziare la propria offerta investendo sia nella qualità dei prodotti che in nuovi servizi telematici ad essi collegati come, ad esempio, la “Servitizzazione” o il “Virtual Commissioning” o il “Virtual training”. E questo, spesso, con l’intento di salvare non solo la propria impresa, ma anche la filiera che ad essa fa capo, nella convinzione che alla base della propria fortuna imprenditoriale ci sia il prezioso contributo di tutti i lavoratori impegnati nelle funzioni più disparate delle aziende dell’indotto. E gli esempi, per fortuna, non mancano dal settore metalmeccanico a quello dell’abbigliamento.
All’idea di produrre per produrre e di stimolare i consumi all’estremo per aumentare sempre di più i fatturati “a prescindere”, si sta affiancando un pensiero nuovo che rivaluta il “valore d’uso” delle merci, la loro qualità e la finalità concreta del loro impiego: nell’affrontare un acquisto si pensa alle priorità in funzione di ciò che serve a sé e alla propria famiglia. Si torna, spesso spontaneamente, a rivalutare un uso “naturale” dei prodotti e a premiare la loro funzione come risposta a esigenze di vita quotidiana, di salute o, nel caso di genitori, in relazione ad esigenze di istruzione dei figli. Così, mentre sembrava che per il Capitale, interessato in ogni caso a moltiplicare i proventi derivati dal “valore di scambio” delle merci vendute, bastasse, crisi dopo crisi, spostare l’asticella sempre più in là, e che gli ostacoli si potessero superare semplicemente rimuovendo obblighi e doveri verso chi, pur con ruoli differenti, sosteneva la produzione con il proprio lavoro secondo una prospettiva storica piatta e lineare, oggi, nel pieno di una crisi pandemica, è la gente comune che ribalta il paradigma tornando ad apprezzare il valore aggiunto introdotto dal “lavoro” e a privilegiare la qualità intrinseca dei prodotti offerti e la loro funzionalità, avendo come punto fermo il miglioramento della propria vita e il benessere del nucleo familiare.
In questo contesto cambia anche la prospettiva con cui viene considerato il “lavoro” che, come si ricordava nell’introduzione, è valutato ormai solo in riferimento alla produttività, per quanto spesso malintesa. Ma se è il lavoro concreto che determina la qualità del prodotto finale e il risultato economico derivante, ancora di più se connesso all’uso di attrezzature molto sofisticate; se chi lavora oggi, grazie alle proprie competenze, agisce con strumenti digitali per dare vita a prodotti altamente complessi e di natura anche immateriale, come per esempio pacchetti SW, allora una politica che si dichiara di sinistra dovrebbe rivalutare il “valore d’uso” della “merce” lavoro, per affermare il protagonismo del lavoratore nella costruzione della ricchezza. I lavoratori sono i soggetti che, cooperando con l’azienda, ne innalzano il valore economico e sociale a prescindere dal loro ruolo o dal tipo di attrezzature che impiegano. Se oggi si attribuisce un grande contributo del settore farmaceutico e biomedicale al miglioramento della qualità della vita o se si esalta il ruolo delle produzioni biologiche in agricoltura, è altrettanto importante sottolineare che gli attori di questo valore sono tutti coloro che lavorano nella impresa: dai gruppi di ricerca, all’ amministrazione, dai lavoratori in produzione a quelli dell’indotto e della logistica. La forza di un sistema economico-industriale sta nella coesione del sistema, nella fiducia che lega lavoratori e proprietà, che ne motiva l’impegno, la voglia di aggiornarsi e di migliorare, ma questo è reso possibile dalla distribuzione equa della ricchezza prodotta, dalla solidità dei rapporti e dalla loro continuità nel tempo. Chi lavora è il soggetto protagonista del processo produttivo, ma è anche un cittadino al quale si rivolge la Carta Costituzionale riconoscendogli pieni diritti. Così, se il “lavoro sociale astratto” (Marx) crea “valore di scambio”, vale a dire ricchezza, attraverso la mediazione dell’intero sistema del capitale, dovrà essere lo Stato a garantire l’identità dei lavoratori anche come soggetti economici, e a salvaguardare per loro il lavoro come dimensione di vita e affermazione di sé.
Una nuova edizione del libro di Jean Baudrillard “Lo specchio della produzione” con prefazione e postfazione di Maurizio Ferraris (Mimesis, 2020) torna oggi in libreria per stimolare una nuova interpretazione del valore sociale del lavoro e della produzione di merci. La penna “eretica” del filosofo francese, nel ricordare che la lotta di classe, quando è avvilita e degradata, serve come impulso a rafforzare il sistema capitalistico e trasforma il proletario in un individuo estremamente conservatore nell’ambito dei valori, focalizza la riflessione sul valore qualitativo del lavoro, proprio partendo dal suo valore d’uso. Questo, pensa Baudrillard, era il valore dato al lavoro nell’antichità, ma ora, ad opera dell’economia capitalistica, la sua importanza è stata dimenticata. A partire dall’interpretazione dell’economia politica, si è rincorso solo l’esito economico del lavoro, il suo valore di scambio, in attesa della rivoluzione futura.
Nel corso delle vicende che hanno riguardato i soggetti protagonisti dell’economia capitalistica, la cultura occidentale si è perduta. Trascurando continuamente le soluzioni dei problemi, le ha di fatto cristallizzate rinviandole ad un futuro nel quale, però, sono intervenuti eventi distorsivi della realtà così come era stata conosciuta e codificata. Una di queste variazioni è rappresentata dalla forza incalcolabile assunta dal grande capitale nel promuovere i consumi attraverso sistemi di persuasione occulta, a lungo analizzati dalla Scuola delle Scienze Sociali di Francoforte nelle diverse generazioni dei suoi rappresentanti (Adorno, Habermas, Honnet). Sono sempre più numerosi i linguaggi che nascondono quelli che Baudrillard definisce i “geroglifici del codice”, la forza dei quali soppianta i canoni tradizionali dell’economia politica per sostituirsi ad essa come un’ideologia parallela. In questo monopolio del codice, il consumo diventa non segno di abbondanza, ma conseguenza di sistemi previsionali che lo hanno indotto. Il cambiamento che ne deriva sfugge quindi alle normali e in qualche misura utili contraddizioni del consumo, che suggeriscono idee, miglioramenti e progresso. Così spiega il filosofo francese nel volume citato: “Si tratta della destrutturazione simbolica di tutti i rapporti sociali, non più nella proprietà dei mezzi di produzione, ma nel dominio del codice.” Questa destrutturazione riguarda anche tutti quei partiti e quelle forze politiche e sociali che fanno capo alle idee socialiste.
A questo punto dello sviluppo scientifico-economico è doveroso porsi degli interrogativi sullo scambio che sussiste nell’ambito dell’economia politica attuale fra la forza lavoro e le garanzie di vita che riguardano i lavoratori. Non ci si può più nascondere dietro lo slogan del lavoro che dipende dal mercato e che dal mercato viene regolato. Le condizioni storiche attuali, dove interi settori dell’economia bloccano o riducono l’occupazione sia per la pandemia, sia per lo sviluppo tecnologico e digitale, sia per i cambiamenti degli equilibri economici internazionali quali guerre o dazi o chiusura di canali commerciali, impongono che questo scambio sia sempre più regolato e riprogettato dallo Stato e dalle sue istituzioni. L’idea di scambio rinvia a una condizione paritaria fra i contraenti, come in molte situazioni dell’economia dell’Alto Medioevo, ma, poiché fra lavoratori e chi detiene i mezzi di produzione o chi controlla i codici dell’economia digitale non sussiste condizione paritaria, sono le istituzioni democratiche che devono favorire l’equilibrio e promuovere, in virtù delle garanzie costituzionali, occasioni e politiche attive del lavoro. Esse rivestono funzione di garanzia dei diritti vitali dei cittadini, che oggi trovano terreno fertile per essere ribaditi, e, se l’emergenza richiede sussidi, la visione prospettica deve prevedere progetti di sviluppo e una organizzazione sistemica del lavoro. L’esperienza dimostra che le potenzialità di lavoro non derivano solo dalla struttura economica esistente sul territorio, ma che si possono generare e crescere in virtù della creatività umana, dell’intraprendenza unita allo sviluppo scientifico o alle arti, in mille direzioni diverse. Gli individui collaborano, scoprono e trovano soluzioni, dedicando la vita ad attività di produzione materiale fino a quelle immateriali più sofisticate. Il miracolo del lavoro dovrebbe consistere sempre nell’esperienza di una fatica che si coniuga con l’impegno più coinvolgente e con l’orgoglio di chi sperimenta la stima e l’approvazione degli altri. E si può constatare che il lavoro, quando genera il Bene Comune, si moltiplica e ogni attività, realizzata con successo, ne induce altre che in molti casi mai nessuno avrebbe previsto prima.
Consideriamo, infine, un altro codice connesso alla produttività e all’attività umana, quello che i francesi chiamano con la parola Différence e che declinano in diverse direzioni. Ragioniamo anche noi su questo codice: fare la differenza significa offrire un contributo personale, diverso da uomo e donna, da persona a persona, ma può voler dire anche offrire qualcosa a chi vogliamo onorare, come era in uso presso gli antichi, quando si portavano le primizie agli dei o alle autorità, quando allora come oggi si vuole fare un dono speciale. Il lavoro, nella dimensione sia di attività concreta che di impegno intellettuale, può essere anche svincolato da una retribuzione e diventa libera attività quando viene dedicato al sostegno delle classi sociali più disagiate e delle persone più fragili. Nell’attuale condizione pandemica è emersa l’importanza e la mole del lavoro di volontariato, dall’assistenza psicologica alla produzione del pane. L’espressione “liberare le forze produttive” non ha sempre un significato univoco.