Intanto guardiamo i numeri. Le mobilitazioni antilockdown a Napoli ci parlano di poche centinaia di persone in piazza. Non si tratta dunque di una rivolta popolare, che è cosa ben diversa. Prendere le misure significa tuttavia fare i conti con la realtà, non sottovalutare. Ci raccontano di una testa del corteo – come si sarebbe detto una volta – senza una leadership definita, quasi una fiammata improvvisa che anticipa tuttavia un autunno incerto e difficile.
Le immagini delle camionette prese d’assalto e del giornalista di Sky aggredito ci parlano dell’irruzione in scena di professionisti della violenza, che si sono affiancati a cittadini che vivono un effettivo disagio e che non hanno individuato altro sbocco che protestare, nonostante i divieti di assembramento e i rischi sul piano sanitario.
Un impasto singolare: commercianti allo stremo, partiti di estrema destra, studenti dei collettivi di sinistra, lavoratori dello spettacolo e frange criminali dei quartieri. Più paranze pulviscolari che camorra organizzata, che – attenzione – dai riflettori ha poco da guadagnare.
Nessuno di loro si parla, si tocca, condivide gli stessi slogan. Si trovano dentro lo stesso calderone, rette parallele che si sono incontrate quella sera del 23 ottobre all’annuncio di un ennesimo lockdown.
Era preordinato? Si, senza dubbio. È scattato all’unisono anche in altre piazze della regione. Aveva un centro di comando esplicito? No e questo per molti aspetti è un problema, perché quando la folla è anonima le fiammate possono essere molteplici e scavare solchi pericolosi sul lungo periodo. Può diventare effettivamente qualcosa di eversivo.
Napoli è oggettivamente in ginocchio, morsa dalla crisi che si fa sempre più violenta, ma anche da un modello di sviluppo economico e da una densità urbanistica che la rende tra le città al mondo più incompatibili con chiusure di lungo periodo.
L’economia informale, innanzitutto, che è un ammortizzatore sociale per decine di migliaia di famiglie, alcune delle quali espulse dai processi produttivi da anni di ristrutturazioni pesanti e non governato.
Il turismo che ha rappresentato il vero boom degli ultimi otto anni, attivo quasi dodici mesi all’anno ormai, segna il passo.
È purtroppo cresciuto in maniera disordinata e talvolta predatoria, con una trasformazione progressiva del centro storico in una piattaforma formidabile per il consumo low cost, “gentrificando” interi quartieri, alimentando il nero e senza comunque produrre lavoro stabile e ben retribuito. Una città che è riuscita a proiettare la sua irriducibile identità locale – il suo patrimonio artistico, la sua bellezza paesaggistica, il suo cibo, persino il suo folclore – nella competizione globale delle tratte turistiche, confezionando un prodotto attrattivo che però non si è mai trasformato in “filiera industriale” compiuta e integrata. Legato all’iniziativa privata, mai inquadrato dentro una prospettiva pubblica. E alla prima folata, il vento se l’è portato via.
Sono mesi che si racconta di una Napoli piegata, che rischia di trasformarsi in una polveriera sociale, che unisce ai problemi antichi l’esplosione della miseria post pandemia. Eppure la prima ondata, quella di marzo e aprile aveva visto una città che capace di reagire bene, di seguire le regole rigidissime della chiusura in maniera ordinata, di far emergere un tessuto di solidarietà formidabile a sostegno delle fasce più disagiate. Chiunque parli di Napoli con sufficienza e disprezzo dovrebbe rendersi conto di cosa significa vivere nei trenta metri quadri di un basso del centro antico, dove il sole non batte mai e dove l’intimità praticamente non esiste. Ovviamente il lockdown non è stato rose e fiori. Sul campo ha lasciato lavoro e reddito, aprendo un’autostrada agli affari di chi possedeva liquidità infinita. L’usura ha lavorato tantissimo sul piccolo commercio, strangolato dai debiti e dalla precarietà, la camorra ha ripreso il controllo assoluto di intere porzioni di territorio e di economia. Il piano economico sociale della Regione – che ha sostenuto imprese e cittadini con trasferimenti diretti – e le azioni anti crisi del governo non potevano oggettivamente supplire alla caduta di reddito strutturale di intere fasce sociali. E non solo quelle più esposte. Anche la filiera dei professionisti – avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti – è andata in sofferenza, chiudendo intere attività avviate da anni. Le file al banco dei pegni del Pio Monte di Pietà hanno fatto il giro del mondo, perché non erano solo poveracci quelli che le frequentavano. Bastava guardare l’abbigliamento. Dunque, dentro questo drammatico passaggio c’è stato chi ha ripreso a fare soldi, a sostituirsi allo stato e alle banche, a giocare sul malessere e sulla rabbia. Non è stata una livella la pandemia, insomma.
Ovviamente il contesto che ho descritto non giustifica affatto quando accaduto in questi giorni. Al contrario, ci dice che c’è una larga parte della popolazione che vive una disperazione silenziosa e che guarda con terrore persino a queste proteste in larga parte strumentali. Soggiogata dalla crisi, spaventata dall’epidemia, incapace di vedere uno sbocco in fondo al tunnel. Davvero esposta al rischio di finire nelle maglie della criminalità. D’altra parte, Il cortocircuito simbolico di quel venerdì della collera è evidente. La mattina la solitudine della manifestazione dei lavoratori della Whirlpool sotto la prefettura, disperata ma serena, arrabbiata ma organizzata, e la notte la rabbia esplosiva dei “casseur” di un sottoproletariato che non è mai stato né si è mai sentito come classe generale.
Quelle due Napoli non si parlano, non si riconoscono, non hanno una base identificativa comune: eppure la crisi rischia di sommarle e di farle scivolare ancora di più nella marginalità e nell’odio.
Se guardiamo alla parabola della Whirlpool colpisce come un anno e mezzo fa sotto il Mise – nel giugno del 2019 – gli operai cantassero “Luigi Di Maio, uno di noi”. Un’adesione politica fortissima verso chi trasmetteva l’idea di stare dalla loro parte senza se e senza ma. Oggi quei cori non ci sono più, sostituiti addirittura da ironie più che sussurrate sull’impotenza mostrata nella trattativa con la multinazionale americana dal Ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. Questo – attenzione – non significa: bene, si rientra nella normalità, gli operai tornano a votare a sinistra dopo essersi fatti abbagliare dalle sirene populiste. Troppo facile, questa delusione scava un ulteriore frattura tra la politica e il lavoro, diventa un moltiplicatore di disintermediazione, rischi di regala interi strati sociali all’antistato. Quando chiude una fabbrica a Napoli, la camorra acquista consenso e potere. Per questo c’è da preoccuparsi. E rimboccarsi le maniche diventa urgente e necessario. In un Mezzogiorno abituato ad aspettarsi molto poco dallo Stato, vedere istituzioni capaci di decidere, di indirizzare e di proteggere ha rappresentato una novità assoluta. Senza precedenti negli ultimi anni. Questo è avvenuto nei mesi del lockdown. Da qui anche le conferma elettorale dello scorso settembre di De Luca e di altri amministratori uscenti. Una scommessa sulla stabilità. Oggi è il passaggio più difficile. Se a Napoli si riafferma l’idea che lo Stato è nemico, distante, vessatorio, arrogante e inconcludente, la tensione sociale schizzerà a livelli incontenibili. Perché ora si apre la stagione dell’insicurezza e del disincanto. Bisogna fare presto.