Sulla guerra in corso in Nagorno Karabakh, nel giorno della mobilitazione della comunità armena davanti a Montecitorio Arturo Scotto ha rivolto alcune domande a Sargis Ghazaryan, ex ambasciatore armeno in Italia ed esperto di trasformazione digitale.
Ambasciatore, il premier armeno Nikol Pashinyan lancia un allarme all’Europa sul rischio di un secondo tempo del genocidio armeno. In questo momento l’aggressione azera nel Nagorno-Karabakh fa fatica a riempire le pagine dei giornali. Come la spiega?
La guerra contro il Nagorno Karabakh e l’Armenia, scatenata dall’Azerbaigian con il supporto concreto della Turchia e l’impiego massiccio di jihadisti pro-turchi provenienti da Siria e Libia è parte del disegno neoimperialista di Erdogan, a scapito della vita umana e dei diritti umani, e va fermata. Già a luglio, Erdogan dichiarava che insieme ai fratelli azeri intendeva portare a compimento la missione lasciata incompiuta dai loro antenati in Caucaso. La cronaca della guerra in corso sta dimostrando che quella missione ha del medioevale, dell’anacronistico, del macabro. Ha un intento genocidario. L’Azerbaigian vuole il Nagorno Karabakh senza i suoi abitanti armeni (della loro civiltà su quelle terre raccontava già Erodoto nel V secolo a.C.), che muoiono nei 122 villaggi e città bombardati con bombe al grappolo e droni kamikaze. Il 60 per cento dei 150 mila abitanti è sfollato. In altre parole, siamo esposti a una malcelata minaccia esistenziale. Ricordiamo che la Turchia nega il genocidio armeno di 105 anni fa. Quindi, mutatis mutandis, immaginatevi, per assurdo, se 105 anni dopo la Shoah una Germania negazionista, nelle sue pulsioni neo-imperialiste avesse incitato e supportato l’aggressione di Israele, da parte di una dittatura confinante, con il coinvolgimento di migliaia di jihadisti. Le trincee in Nagorno Karabakh, sono le trincee della lotta contro terrorismo jihadista e c’è un filo rosso che lega il massacro di Charlie Hébdo, del teatro Bataclan ai civili uccisi nelle montagne del Nagorno Karabakh. Anche quelle montagne sono Europa! Per fortuna, seppur in ritardo di qualche giorno, i media italiani hanno cominciato a raccontare questo quadro grottesco.
Probabilmente il conflitto in Nagorno-Karabakh è sconosciuto ai più. È una delle tante guerre dimenticate. Eppure è alle porte dell’Europa e incrocia la grande questione delle risorse energetiche, su cui l’Azerbaigian ha costruito la sua fortuna geopolitica. E l’Europa sembra distratta, per usare un eufemismo. Perché?
Fra qualche settimana celebreremo in Europa i 31 anni della caduta del Muro di Berlino, come momento emblematico della fine del potere sovietico. Invece, gli effetti dello stalinismo cesseranno con il compimento del percorso dell’autodeterminazione del Nagorno Karabakh. Infatti, all’inizio degli anni ’20 del ‘900 Stalin attribuì l’Artsakh (il nome armeno del Nagorno Karabakh) storicamente popolato da armeni, all’Azerbaigian turcofono per consolidare il piano dell’esportazione della rivoluzione bolscevica in Turchia. Verso la fine degli anni ’80, le autorità locali, in ottemperanza alla Costituzione sovietica dichiararono l’indipendenza. La risposta azera fu guerra. Oggi, a distanza di trent’anni, il Nagorno Karabakh non è mai stato de facto parte dell’Azerbaijan. Questa è una questione quintessenziale europea, perché qua si compie il nucleo del sistema valoriale europeo, a cominciare da quel diritto alla ribellione di tocquevilliana memoria. È vero che sulle risorse energetiche il clan del dittatore Aliyev, e non l’Azerbaigian, ha costruito una fortuna. Quanto è vero l’utilizzo di un fondo riconducibile alla famiglia del dittatore da circa 3 miliardi di euro per comprare consensi politici in Europa, scoperto dall’inchiesta Laundromat dell’OCCRP e le sue ramificazioni italiane rivelate da Report nel 2016. Invece, l’Europa non dovrebbe essere distratta, dato che importa idrocarburi dall’Azerbaigian. L’Europa dovrebbe essere attivamente e fattivamente interessata nella sicurezza e stabilità delle regioni di transito dei gasdotti ed oleodotti. Infine, il caso libico dovrebbe averci insegnato che rapporti troppo stretti con dittatori che esportano idrocarburi e confusioni fra valori e interessi, non sono solide strategie di lungo termine.
L’allarme lanciato dal primo ministro dell’Armenia riguarda l’aggressività della Turchia, addirittura evocando il rischio che se Ankara passa in Nagorno Karabakh arrivi dritta a Vienna. C’è indubbiamente una strategia nuova della Turchia di Erdogan, il gigante si è risvegliato, assume una leadership regionale che invade il teatro libico, parla a larghe fasce di mondo sunnita, apre uno scontro nel mediterraneo con la Grecia. La denuncia avanzata dal New York Times della presenza dei caccia turchi e del reclutamento dei jihadisti siriani è fondata?
Le dichiarazioni ufficiali di Mosca, Parigi e Washington raramente coincidono. Sono coincise nella denuncia del reclutamento di jihadisti pro-turchi e del loro trasferimento in Azerbaigian in funzione anti-armena, da parte di Erdogan. In altre parole, un alleato NATO è impegnato nella proliferazione di reti jihadiste, invece un partner energetico dell’Europa – l’Azerbaigian – li ospita sul proprio territorio, a ridosso delle reti di trasporto di gas e petrolio e li impiega per massacrare civili armeni. Il quadro si completa con l’impiego di caccia-bombardieri F16 turchi d’istanza in Azerbaigian contro il Nagorno Karabakh e l’Armenia e di droni d’attacco Bayraktar (prodotti dal genero di Erdogan). Aggiungo, che alla richiesta trilaterale dei capi di Stato della Federazione Russa, Francia e USA del 1 ottobre scorso, di cessazione delle attività belliche indirizzata alle parti in conflitto, l’Armenia e il Nagorno Karabakh reagirono con favore, e prima ancora che Baku si esprimesse, parlò Erdogan qualificando tale richiesta “inaccettabile”. Il rischio di regionalizzazione della guerra è reale, anche alla luce del fallimento dell’accordo di tregua raggiunto fra l’Armenia e l’Azerbaigian, sabato scorso, con la mediazione russa, accordo che l’Azerbaigian cominciò a violare tredici minuti dopo l’entrata in vigore. Quindi è vero, per Erdogan non si tratta soltanto dello stretto rapporto con l’Azerbaigian, un rapporto che ad Ankara sintetizzano in “una nazione, due stati”, invece a Baku applicano una memoria selettiva che rimuove ogni traccia scolastica dell’Anschluss. Per Ankara è in gioco un riposizionamento geopolitico dai connotati neo-imperiali in quello che era lo spazio d’influenza dell’Impero Ottomano. Questo processo, iniziato con la destabilizzazione della Siria, poi la Libia, a seguire il Mediterraneo Orientale, ora l’Armenia, potrebbe giungere ai Balcani. Erdogan è impegnato in un’escalation e ogni volta rompe dei tabù. Degli osservatori internazionali più acuti di me parlano del 2023, come anno ideale, il centenario del Trattato di Losanna, perché Erdogan compia la modifica dello status quo macro regionale. Tuttavia, le ambizioni turche sembrano essere smisurate rispetto alle risorse disponibili e alla capacità di attrazione, al soft-power turco nella macro regione.
Oggi ci sarà una mobilitazione della comunità armena a Roma davanti a Montecitorio. Il Parlamento italiano nella scorsa legislatura ha riconosciuto finalmente il genocidio armeno come una delle grandi tragedie del Novecento. Cosa può e cosa deve fare il governo italiano nelle sedi internazionali per fermare questa carneficina?
Quella in Italia è una delle comunità armene più antiche fuori dall’Armenia. Le prime tracce della presenza di una comunità organizzata a Roma risalgono al 63 dopo Cristo. In questi duemila anni, gli armeni hanno contribuito in tutti i campi a plasmare l’Italia come la conosciamo e la amiamo oggi. Sono numerosi i toponimi armeni dal nord al sud, Dopo il genocidio, l’Italia ha accolto molti sopravvissuti, che hanno ricevuto solidarietà e hanno restituito all’Italia, per esempio, impegnandosi nella lotta partigiana di liberazione. Hanno contribuito generosamente all’Italia come la conosciamo oggi. In Italia, hanno fondato università, teorizzato l’energia solare, ideato e diretto il programma spaziale italiano, creato imprese globali con sedi in Italia, ma soprattutto, gli armeni sono cittadini consapevoli dell’Italia, con uno sguardo sempre volto verso la patria degli antenati. Oggi chiederemo la pace per Artsakh (il Nagorno Karabakh). Rileggeremo l’Articolo 11 della Costituzione davanti al Parlamento. Chiederemo che l’Italia agisca per prevenire la regionalizzazione della guerra in corso, che denunci la crisi umanitaria in Nagorno Karabakh. Spiegheremo che è anche nel primario interesse italiano usare gli stretti rapporti con Ankara e Baku per invitarli a più miti consigli, in primis al rispetto dell’accordo della tregua umanitaria, che dopo undici ore di serrati negoziati a Mosca, Armenia e Azerbaigian hanno firmato. Oggi spiegheremo che nella fase attuale l’equidistanza non distingue fra aggressori e difensori e contribuisce a creare un senso di impunità. Nel 1916, Antonio Gramsci, in un poderoso j’accuse su “La Voce del Popolo” denunciava l’indifferenza verso l’eliminazione sistematica del popolo armeno. Oggi leggeremo quel j’accuse, certi che non è un messaggio attuale. Oggi chiederemo che l’Italia faccia l’Italia.