(Intervento di apertura della Direzione nazionale di Articolo Uno in corso via web)
Il 23 maggio del 1992 i sismografi tra Capaci e Isola delle Femmine registrarono un piccolo terremoto, l’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia di Erice registrò una scossa pari al terzo grado della scala Mercalli.
Non si trattò di un terremoto, quello che fece tremare la terra sotto Capaci fu l’esplosione di 5 quintali di tritolo posizionati in un tunnel scavato sotto la sede autostradale. All’altezza del km 5 dell’autostrada A29 saltarono per aria una Croma marrone con a bordo gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo ed una Croma bianca con a bordo Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo.
Avevo dodici anni e come molti non avevo mai sentito parlare di Giovanni Falcone. Avevo dodici anni e per la prima volta, in modo inequivocabile, non solo nella mia terra, tra la mia gente, ma anche su tutte le testate giornalistiche nazionali sentii pronunciare la parola mafia. Per la prima volta non era più una parola abbozzata, detta fra le righe, sussurrata a mezza bocca, non era più uno sguardo sottinteso né una smorfia muta, aveva smesso anche di essere il sorrisetto beffardo di chi continuava a sostenere che fosse solo la fantasiosa invenzione di un gruppetto di magistrati affetti da manie di protagonismo.
La Strage di Capaci consegnò alla Sicilia e al Paese intero una dolorosa e feroce verità: la mafia esisteva, non era una guerra tra bande, era l’organizzazione criminale verticistica che Falcone e il pool di Palermo ci avevano raccontato durante il maxi processo. Dopo anni di silenzi, indifferenza e paura era arrivato finalmente il momento in cui i cittadini avevano deciso di smettere di tacere.
I giorni che seguirono alla strage furono giorni surreali, in Sicilia ci svegliammo con l’esercito che presidiava le strade, gli edifici pubblici, le scuole. I balconi dei nostri palazzi si riempirono di lenzuola bianche stese al sole, quello era il nostro modo di farci riconoscere, era il nostro modo di urlare: noi la mafia non la vogliamo! Quelle lenzuola stese significavano tanto, erano il grido di dolore e di ribellione di un popolo intero, erano la nostra firma, la nostra invocazione, il nostro appello.
Il lavoro di Falcone non era stato capito, la sua morte, invece, sembrava aver aperto gli occhi a tutti. Non importava quanto in vita fosse stato lasciato solo, quanti veleni gli fossero stati sputati addosso, la sua morte aveva avuto il potere di legittimare le sue battaglie, di rendere reali i suoi sacrifici personali, il nostro compito era non renderli vani. Imparai presto che quel clima surreale che per la prima volta avevo percepito intorno a me non sarebbe più andato via, appartiene alla mia terra, appartiene a questo paese, è l’ombra sulla quale, ogni giorno, proviamo a fare sorgere il sole.
Avevo dodici anni quando morì Falcone: oggi, 28 anni dopo, sono orgogliosa di aprire la nostra direzione nazionale con questo ricordo, sono fiera che abbiamo scelto una data così significativa per la storia non solo della mia regione, la Sicilia, ma del paese intero per riprendere il nostro confronto interno. Ne sono fiera perché so che quello che stiamo compiendo oggi non è solo un vuoto esercizio di memoria, è la celebrazione di un uomo e della sua battaglia che non può che essere la nostra.
Veniamo da mesi duri, per la prima volta, nella storia della nostra Repubblica sono state compresse alcune tre le più importanti libertà costituzionali, abbiamo attraversato una pandemia e ancora non ne siamo usciti, ma non abbiamo mai abbassato la guardia sulla lotta alla mafia. Non lo abbiamo fatto e non possiamo farlo adesso. Perché, guardate, in un paese straziato dalle morti da Coronavirus, con le imprese in ginocchio e i cittadini alla canna del gas è facile che la criminalità organizzata finisca per sembrare un problema secondario.
Uno di quelli da affrontare “dopo”.
E invece no.
È un problema da affrontare oggi, perché la mafia non è solo un sistema verticistico, è anche un colossale e consolidato sistema economico. Falcone più di tutti ce lo ha insegnato, consegnandoci, grazie alle sue intuizioni, una delle legislazioni più avanzate del mondo nella lotta alla mafia.
In tempo di pandemia si pensa che la morte sia solo quella provocata dal virus, l’oggetto dell’attenzione dei cittadini, delle autorità, della stampa è sempre lo stesso: la diffusione del contagio. Eppure dietro questo apparente silenzio le mafie non sono mai scomparse, non si sono indebolite, anzi. Indisturbate hanno costruito un loro sistema di welfare alternativo a quello statale. Dove hanno chiuso le piazze di spaccio hanno attivato le consegne a domicilio. Dove i cittadini non hanno potuto ricevere sostegni economici hanno consegnato spesa e beni di prima necessità. Dove le aziende avevano bisogno di liquidità immediata, l’hanno offerta a tassi di interesse, se è il caso, ancora più convenienti delle banche. E in tempi certamente più rapidi.
Se per il paese l’epidemia è stata una piaga, per le mafie è stata un’occasione: meno controlli, meno burocrazia, più soldi. Falcone credeva che l’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata fosse emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa potesse suscitare sull’opinione pubblica.
Io vorrei che noi oggi, a 28 anni dalla sua morte, assumessimo un impegno, quello di rendere il nostro impegno razionale, quotidiano, consapevole.