Il 13 maggio di quarantadue anni fa, era il 1978, veniva approvata la legge 180, che venne immediatamente riconosciuta nel nostro paese con il nome di chi maggiormente contribuì alla riforma del sistema della salute mentale: Franco Basaglia.
Basaglia fu artefice, in quella stagione sociale e civile, di uno dei veri atti rivoluzionari del Novecento italiano. La denuncia dell’inutilità dell’istituzione manicomiale, trasformata da luogo di tutela a esperienza di reclusione, il superamento della contrizione e del primato farmacologico rispondono in Basaglia a una intuizione che prima è umanistica, e poi si fa pratica medica: la consapevolezza, da un lato, che salute e malattia sono elementi costitutivi della vita di ciascuno, anche quando si tratta della malattia mentale; dall’altro, del fatto che nel dedalo più intricato di una mente sofferente la persona mantiene risorse di relazione e creatività che possono essere ridestate.
“L’ultima questione è di sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare”: così scriveva Karl Jaspers, uno degli autori frequentati da Basaglia. La risposta che lo psichiatra veneziano dà a questa domanda è tenacemente positiva, e lungo la sua esistenza e le sue esperienze professionali, da Gorizia a Trieste a Roma, Basaglia lavorerà per tradurre questa convinzione in riforme radicali del sistema e dei modelli di servizi.
Perché l’altra intuizione radicale di Basaglia, anche questa politica prima che medica, è che l’eccesso di istituzionalizzazione corre il rischio di soverchiare la persona, soprattutto quanto l’istituzione è totale: il manicomio, il carcere; e che le istituzioni hanno senso nella misura in cui sono strumenti a servizio della persona, della comunità.
Non a caso il lavoro fondamentale di Basaglia è sulle relazioni che la persona affetta da sofferenza mentale è in grado di riattivare, e questo lavoro è insidioso, perché non riguarda solo quella singola persona, ma coinvolge il nucleo dei suoi affetti di base, ma si allarga fino a comprendere, in potenza, l’intera società.
Questa connessione fondamentale è uno dei tratti più forti e penetranti dell’elaborazione di Basaglia. Quando Marco Cavallo abbatte i cancelli del manicomio di Trieste abbatte anche il diaframma tra dentro e fuori, tra isolamento e libertà, e coinvolge prima di tutto la città.
Ritornare a Basaglia è indispensabile, soprattutto in quest’epoca segnata profondamente dal covid-19: lo è perché è evidente che la lunga quarantena ha segnato e segnerà profondamente le menti, a partire dalla persone potenzialmente più fragili, ma lo è anche per tentare di comprendere e orientare al meglio ciò che abbiamo vissuto in questi due mesi.
Forse per la prima volta nella storia dell’umanità decine di milioni di persone hanno vissuto l’esperienza dell’autoisolamento, hanno dovuto misurare la separatezza dei propri corpi dai corpi degli altri, prima di tutto dai propri affetti, fino all’esperienza atroce della morte in solitudine, surrogando questa contenimento con le infrastrutture digitali e i social network.
Rimanendo fedeli alla sua elaborazione, dovremmo dire che ora il problema non è tornare alla normalità, ma liberare la capacità rigenerante delle relazioni, abbattere gli innumerevoli diaframmi che abbiamo sedimentato in questi anni sclerotizzandole in barriere sociali, ritornare al concetto fondamentale della società come corpo collettivo che si prende cura di tutti i suoi componenti, a partire da chi ha meno.