Il mantra del momento è “come e quando ripartire”. Forse sarebbe il caso di porsi un tema preliminare: “Per andare dove”? Ritorno alla normalità? Suggerisce Ángel Luis Lara: “La normalità è il problema”. Osserva Marco Revelli: non è vero che “niente sarà più come prima”. E aggiunge: “Niente DOVRÀ ESSERE più come prima”.
Dunque, ripartire; ma non per tornare a prima.
Nell’ultimo mese non si è fatto che ripetere: “È una guerra”. Ma lo è davvero? O non si tratta, piuttosto, di cogliere la reale natura del male? Ricorrere all’iperbole o al terribilismo verbale rende più chiara o più confusa la situazione? Non è sufficiente riconoscere che si tratta di una pandemia, come lo scorso 11 marzo ha dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità? Devoto-Oli: la pandemia è una “epidemia con tendenza a diffondersi rapidamente attraverso vastissimi territori o continenti”. Una pandemia non provoca meno sofferenza e morte. E anch’essa richiede un progetto per la ricostruzione, non solo materiale.
Qualcosa di infinitamente piccolo e invisibile diventa una minaccia che suscita allarme e paura, ci costringe al distanziamento sociale, a più attente norme igieniche, all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, con prescrizioni che oggettivamente limitano la libertà di movimento, colpendo le nostre comunità, rendendole deserte e spettrali, mettendo a dura prova il sistema sanitario e dei servizi, paralizzando gran parte dell’attività economica, con mancati introiti, nuove povertà e una straordinaria preoccupazione non solo per l’oggi, anche per un domani segnato dall’incertezza e dal rischio di più gravi diseguaglianze. Sino a pochi mesi fa c’era qualcuno – non senza un certo seguito – che sosteneva l’idea che il nemico fosse nell’altro, nello straniero o nel diverso, invece può essere al nostro fianco, in forme asintomatiche, o in noi, in ciascuno di noi.
In un virus, in un nonnulla, la catastrofe che inceppa il meccanismo, lo fa barcollare e implodere. Il virus mostra i limiti di una certa idea di sviluppo. Uno stress test per un mondo che si presume forte senza rendersi conto della propria costitutiva vulnerabilità. Probabilmente non potevamo essere pronti; certamente ci siamo fatti trovare impreparati.
Qui è un punto da approfondire. Forse qualcuno ricorda la “626”, ovvero il decreto legislativo del 19 settembre 1994. Con il quale, nel nostro ordinamento, la questione della sicurezza ha trovato, almeno sul piano normativo, un approdo e un riconoscimento. Poi, nel 2008, un altro decreto legislativo, l’81 del 9 aprile 2008. Fondato sulla stretta relazione tra sicurezza e salute, l’una non si dà senza l’altra. Ovviamente non esiste una condizione di assoluta sicurezza; esiste, però, una maggiore o minore approssimazione alla corretta predisposizione di idonee misure per la prevenzione.
Il decreto legislativo 81/2008 prescrive alcune azioni coordinate. Un Documento di valutazione dei rischi (DVR). Un Responsabile per la sicurezza, la protezione e la prevenzione (RSPP). Un Responsabile dei lavoratori per la sicurezza (RLS), uno sino a 200 lavoratori, 3 dal 201 a 1000, 6 oltre i mille lavoratori. Un Medico competente (MC). Un’organizzazione: squadre antincendio, per l’evacuazione, per il primo soccorso. Esercitazioni. Formazione. E dispositivi di protezione individuale (DPI).
Proviamo a rileggere l’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. O l’articolo 2087 del Codice Civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. O il comma 2 dell’articolo 40 del Codice Penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Dall’insieme di queste norme discende la civiltà del lavoro.
Il bene della sicurezza deve fondarsi sulla responsabilità sociale della persona: siamo tutti interpellati, chiamati a collaborare, secondo un’etica pubblica che deriva dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (SSN), la 833. Salute e sicurezza comportano una visione olistica. Il tema non è solo la sanità ma la salute, secondo la denominazione del Ministero competente guidato da Roberto Speranza.
Alla luce del decreto legislativo 81 del 2008, precauzione, prevenzione, protezione, devono diventare i valori sui quali costruiamo la società che vogliamo dopo questa pandemia. Con investimenti strategici e di lungo periodo. Dopo la quarantena, ancora con priorità sulla salute, attenzione alla questione sociale, per una ripartenza favorita da un piano per la messa in sicurezza di tutto il mondo del lavoro.
Non deve esserci un contrasto tra salute e ripresa economica, perché il dopo non può non avere in questo connubio la sua motivazione.
La storia delle mascherine è emblematica. Di fronte al bisogno purtroppo si è visto che ne eravamo sprovvisti. Non deve più succedere. Non solo: se la mascherina fa parte dei diritti di cittadinanza, non può essere una gentile elargizione. O ci mettiamo nella prospettiva di protocolli ben impostati o all’emergenza si aggiungerà l’affanno e il paternalismo delle concessioni dall’alto.
Anche qui cerchiamo di uscire da uno stato di minorità, non è vero che l’Italia non è in grado di farlo, dal terremoto del Friuli è uscita con la Protezione civile. Come dice Gustavo Zagrebelsky, “nel diritto alla salute è compreso il diritto di vivere in condizioni di salubrità”. Quindi: sicurezza sociale; mentre sino a pochi mesi fa si pensava che il problema della sicurezza si risolvesse armando le persone e stravolgendo il senso, com’è tristemente accaduto, dell’istituto della legittima difesa.
Questa fase della vita della Repubblica è segnata da un intreccio tra Decreti-Legge, motivati da necessità e urgenza, per provvedimenti straordinari di carattere sociale ed economico, e Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), fonte secondaria, la quale assume, tuttavia, nel contesto dato, un particolare rilievo, nel prescrivere comportamenti, non senza effetti “performativi”. Poi, con modalità più o meno coordinate, le ordinanze dei Presidenti di Regione. Riproponendo su questo terreno, non senza disorientamento da parte della pubblica opinione, il gioco delle distinzioni o delle dispute politiche.
Ora sul tema delle competenze, confortati dall’articolo 117 della Costituzione, forse è il caso di ricordare che tra le materie nelle quali lo Stato ha legislazione esclusiva, sono alla lettera q) la profilassi internazionale e alla lettera s) la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Non si tratta di far fare dei passi indietro alla poliarchia istituzionale, ma di esercitare le prerogative proprie dello Stato.
Sappiamo quanto negativamente pesi, nel nostro Paese, la burocrazia. Proprio per questo c’è uno straordinario bisogno di un’amministrazione competente e qualificata. Non asservita. Al servizio dei cittadini e della legge. Il primato della politica si esercita non con l’ingerenza inappropriata, ma con un indirizzo chiaro e autorevole, del quale non fa parte la tendenza agli annunci.
Una novità è il lavoro agile, che, da ripiego, reso indispensabile dall’emergenza, deve diventare una risorsa. Non si tratta di lavoro flessibile. Si tratta di una forma di lavoro che deriva dalla rivoluzione digitale in atto. Che deve avere la stessa dignità di quello in presenza. Qualità del lavoro, “diligenza tecnica” nel senso indicato dell’articolo 2104 del Codice Civile, e lavoro da remoto non sono in contrasto. Veniamo da una concezione del lavoro legato alla presenza che ha avuto importanti ragioni storiche e che rimarrà anche nel futuro. Ma è grazie al lavoro a distanza che ha potuto determinarsi una transizione attraverso la situazione in atto. Un ponte gettato verso la ripresa. Occorre superare in prospettiva la deroga agli accordi e agli obblighi previsti dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, cap. II, art. 18. Dalla normativa emergenziale, fondata sulla distanza come regola delle relazioni sociali, quindi sullo svolgimento delle attività da remoto, è auspicabile si possa arrivare ad una impostazione più solida e matura, ad uno Statuto del lavoro agile o almeno ad una contrattazione della materia nell’ambito delle relazioni sindacali.
Come dice Jürgen Habermas: “Oggi vediamo che, quando urge il bisogno, solo lo Stato ci può aiutare”.
Non un ritorno allo statalismo; ma la definizione di un diverso rapporto tra cittadini e Repubblica, grazie ad un patto per una maggiore fiducia reciproca, senza la quale non verremo a capo neanche di questioni strutturali da troppi decenni rimaste senza risposte adeguate quali l’evasione, il debito, la crescita. In questa idea di res publica non c’è lo Stato apparato, ma lo Stato promotore dell’autonomismo territoriale e di energie civili, dal capitale sociale al mondo del non profit al volontariato.
Nostalgia della normalità non significa tornare a prima, al contrario, costruire il dopo con un altro approccio. Come ha detto Matteo Maria Zuppi: non si può pensare di “rimanere sani in un mondo malato”. Per ripartire davvero l’ultima cosa che serve è tornare alla condizione insalubre del mondo di prima.