Una nuova normalità. Ricostruire non basta, ciò che va fatto è trasformare

| Ambiente

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema!”. Nell’ultimo mese questa frase è diventata una sorta di mantra. Messo da parte l’entusiasmo per uno slogan che punta allo stomaco, se da un lato sembra quasi certo che sia in atto un cambiamento radicale, dall’altro resta incerta, nebulosa, quale trasformazione sociale sia effettivamente in corso: sembra mancare il contenuto del “cambiamento”. Una bella scatola, vuota, chiamata “nuova normalità”. Il distanziamento sociale, il senso di instabilità ed insicurezza derivante dalle norme di contenimento della pandemia proiettano ombre nere sul futuro. Superata l’emergenza, dovremo essere pronti a governare il cambiamento. Il pericolo è quello di lasciare questa bella scatola nelle mani di chi potrebbe riempirla a proprio uso e consumo, sfruttando la crisi COVID come strumento di propaganda.

L’Uomo sembra incapace di avviare cambiamenti radicali, positivi o negativi, senza passare attraverso una fase traumatica. Riprendo una frase della professoressa Ilaria Capua: “Il coronavirus lascerà più segni nelle nostre coscienze che nei nostri corpi”. Vero. Il virus, per adesso, resta meno aggressivo e meno letale di tante altre infezioni; abbiamo numerose strategie terapeutiche per contrastarlo e, con buona pace dei tuttologi e degli sciacalli, le strutture operative centrali sono state in grado di mitigare l’onda d’urto della pandemia, nonostante le scarse informazioni sulla reale natura del virus. Uno studio dell’Imperial College di Londra ha valutato che grazie alle strategie di contenimento precoce a fine anno potranno essere salvate dalle 30,7 milioni alle 38,7 milioni di vite sulle 40 milioni di vittime potenziali. Tutto dipende dalla rapidità d’intervento degli Stati. Ma c’era modo di prevenire questo disastro? Da venti anni, ad ondate alterne, spuntano epidemie sempre più impegnative da gestire: la SARS nel 2002, l’influenza suina del 2009, la MERS nel 2013. Quest’ultima, sempre causata da un coronavirus, aveva un tasso di letalità pari a circa il 34%. Nonostante le varie avvisaglie, oggi circa quattro miliardi di persone sono in quarantena. Ma siamo sicuri che sia colpa del virus? Una microscopica particella inanimata, molto più semplice del più semplice batterio, sta davvero mettendo in crisi tutto il sistema globale?

La colpa non è del virus. La colpa è del suo vettore, l’uomo e del sistema che ha creato. Tutte le pandemie degli ultimi anni, dall’Ebola alla SARS, sono figlie dei modelli di sviluppo non-sostenibili che l’uomo continua a perpetuare. Forse non siamo così “sapiens”: nonostante le ripercussioni siano ormai attaccate sulla pelle di tutti, ingannare sé stessi e far finta di niente resta comunque la strada più semplice. Un po’ come quando guardavamo l’epidemia COVID da lontano, sereni, come se la Cina fosse su Marte. Le epidemie degli ultimi anni hanno tutte origine zoonotica, sono trasmesse dagli animali, soprattutto selvatici, a causa dell’innaturale contatto con umani e animali domestici. Ricondurre l’esplosione del COVID a un evento isolato all’interno di un “mercato umido” di Wuhan è stupido oltre che pericoloso. La causa va cercata nei livelli insostenibili di caccia, di traffici di animali selvatici, nell’incessante distruzione di habitat naturali ricchi di biodiversità, foreste in particolare, nell’intensificazione massiva di allevamenti di bestiame, che aumentano il rischio di contatto tra specie che, altrimenti non si sarebbero mai incontrate. “Nessun laboratorio segreto”, vorrei dire ai cari complottisti. All’onorevole leghista Zoffili vorrei suggerire di fare interrogazioni parlamentari non tanto “sugli esperimenti nei laboratori di Wuhan” ma sulle 30 tonnellate di squame di pangolino confiscate in Asia lo scorso anno (questo animaletto, grande come un gatto, oltre ad essere in via d’estinzione, è ricercatissimo per le sue squame, utilizzate in molti preparati della medicina tradizionale cinese. Una delle prime teorie sulla diffusione del COVID vedeva il pangolino – proveniente dall’Africa subsahariana – infettato dal coronavirus di un pipistrello cinese. Un esempio di contatto tra animali provenienti da habitat che mai si sarebbero incontrati senza l’intervento umano).

Altro punto di rottura è stata la velocità. La velocità della società attuale è proporzionale alla velocità di diffusione del coronavirus. In una società globale dove tutto corre, compete, primeggia, la velocità è legata a doppio filo con lo sviluppo tecnologico. Ma tutto ciò è compatibile con i sistemi (biologici) che la utilizzano? La biologia e la tecnologia hanno velocità differenti che non possono essere uniformate. La biologia non ha i tempi della finanza, della borsa, dell’utile e del fatturato. A cosa ha portato anteporre le esigenze della crescita e dello sviluppo a qualsiasi forma di sostenibilità ambientale? Pandemia, morte, impoverimento, distanza affettiva e sociale.

Da oggi è vitale giocare d’anticipo. Questa “pausa” forzata è la giusta finestra entro la quale sviluppare le nostre riflessioni. “Dopo” sarà già tardi. Se dovessimo limitarci a “ricostruire”, ci troveremo al punto di partenza e il prossimo patogeno potrebbe non essere un “semplice” coronavirus. Che i nostri modelli non fossero sostenibili, eco-compatibili, socialmente equi lo sapevamo già. Di certo il COVID non migliorerà le politiche liberiste e non tramuterà la barbarie in socialismo. Bisogna però prendere quella scatola vuota, la “nuova normalità” e riempirla con scelte politiche, economiche e sociali che non servano a “ricostruire” ma a “trasformare”: colmando le distanze create dall’individualismo; smantellando le false sovrastrutture di onnipotenza ed indifferenza che ci indeboliscono. Immaginare, essere creativi. Osare. Una “normalità” dove i modelli solidaristici e l’equità sociale prevalgano, garantendo tutele, su ogni livello, per l’intera collettività. Sistemi fondati sulla cura del singolo, che rifuggano dallo sfruttamento e dal dogma del profitto. Difesa e sviluppo dei beni comuni in una società ecologicamente orientata, che ponga come obiettivo ultimo delle proprie scelte politiche ed economiche il raggiungimento del pareggio di bilancio sociale. Pensieri utopici? Fino a pochi mesi fa un po’ tutti pensavamo fosse impossibile un’epidemia globale. A trasformare l’utopia in realtà ci ha pensato il nostro ecosistema. Governiamo questa “nuova normalità”.

Roberto Langella

Farmacista Ospedaliero, 33 anni, militante di sinistra, cresciuto a pane e Trockij. Campano di nascita, milanese d’adozione. Lotto per difendere il Diritto alla Salute e per un Servizio Sanitario Nazionale sempre più equo, solidale ed universalistico.