Avevo scritto a caldo, mercoledì sera, dopo che Giuseppe Conte aveva presentato in diretta il nuovo decreto che ha fermato quasi totalmente l’Italia, che il presidente del consiglio era stato proprio bravo: preparato, chiaro, sufficientemente solenne, drammatico ma non allarmista. Penso, avevo aggiunto, che si stia guadagnando sul campo il rispetto degli italiani. Il tweet (soprattutto) e il post in cui dicevo questo hanno avuto un’eco e un gradimento enorme, rispetto ad altre cose che scrivo. Inducendomi a pensare che tra questo governo e il sentire comune del paese stia succedendo qualcosa.
A mettere in ordine i miei stessi pensieri è poi arrivato ieri mattina l’articolo di Daniela Ranieri sul Fatto quotidiano: “Conte, un discorso da uomo dello stato“. Mi basterebbe invitarvi a leggerlo, perché ne condivido ogni parola e non ne ho neanche mezza da aggiungere. Il motivo per cui ci torno su è perché voglio dire che tutto questo mi interessa non tanto e non solo riguardo a Conte. Ma riguardo a noi.
L’emergenza rivela, disvela. Illumina il vero volto delle persone e rimette a posto le priorità. Mostra noi italiani a noi stessi, politici e cittadini. Ci sono molte lezioni che stiamo già imparando: su cosa vuol dire avere un sistema sanitario pubblico, su perché si pagano le tasse, su cosa sia l’Unione europea, sul senso della “vicinanza” in un condominio, sul sentirsi cittadini, su cosa sia il vero coraggio, sul fatto che amare qualcuno può significare dover accettare di stargli lontano. Ce n’è anche una, secondo me, sulla comunicazione – che non è mai solo comunicazione, ricordiamocelo.
Per la prima volta da moltissimo tempo, nell’emergenza coronavirus un governo italiano si rivolge ai cittadini facendo un discorso di verità e di fiducia. Per la prima volta da moltissimo tempo, un presidente del consiglio non mette in mostra se stesso ma evoca lo spirito della comunità. Perché il problema è serio, e noi non siamo la Cina: questa partita la dobbiamo vincere rispettando la nostra costituzione e la nostra identità, rimanendo cioè una democrazia. Per questo non ha senso preoccuparsi che il decreto non sia abbastanza esplicito e dettagliato, o che le sanzioni non siano immediatamente applicabili, o se l’autocertificazione si possa scrivere a mano o vada per forza scaricato il modulo: perché non è questo il punto, non è in un formulario la soluzione, ma nella nostra adesione quotidiana alla scelta di proteggerci gli uni gli altri.
Lo ripete da settimane il ministro Speranza in ogni sua apparizione pubblica, cito a memoria: ce la faremo solo con il contributo di tutti, la sfida non si vince con un decreto o un divieto ma se dimostriamo di essere una comunità e ci comportiamo come tale, perché siamo un grande paese e abbiamo la forza di farlo. Anche Conte l’altra sera ha detto e in questi giorni sta dicendo le stesse cose, con il tono e le parole giuste, come racconta l’articolo di Ranieri. È riuscito, scrive, “a comunicare, a mettere in comune, un bene prezioso che pareva perduto: la fiducia”.
Ecco il grande segreto che questa emergenza rivela alla politica e agli italiani: comunicare non è inventare storie che rendano più gradevoli i fatti. Comunicare non è approfittare dei problemi per mettere in buona luce chi può risolverli, ingigantire le difficoltà per ottenere i pieni poteri, additare un nemico per ottenere consensi, no. Comunicare è “mettere in comune”. Comunicare, osiamo dirlo una buona volta, è di sinistra. Ha la stessa radice di “comunità”. Se volete, anche di “comunismo”.
Non è colpa nostra. Il ventennio berlusconiano, e i berlusconismi più o meno tardivi che hanno affascinato anche il nostro campo, ci hanno convinto del contrario. Siamo cresciuti, o invecchiati, convinti che quelli “bravi a comunicare” fossero gli altri, quelli dei cieli azzurri e del sole in tasca, dei ristoranti pieni e delle “eccellenze italiane”. E che per essere bravi anche noi non ci fosse che una strada: imparare a fare come loro. Invece no, comunicare è abbracciare la realtà, diventare capaci di raccontarla e metterla in comune. Comunicare è dire (bene) la verità. Ed è proprio nei momenti in cui la verità non puoi proprio nasconderla che lo capisci, e allora riesci a parlare a un paese.
Qualcuno trova paradossale che ne sia capace un presidente del consiglio che fino a due anni fa nessuno conosceva. Però se ci pensate non è così strano: per noi cattolici esiste la “grazia di stato”. E per tutti noi che amiamo la politica e la storia esiste comunque la regola che i fatti hanno una loro forza. La classe dirigente che i partiti non sanno più formare e selezionare la selezionano inevitabilmente i fatti; la seleziona la realtà. Bisogna certo, avere un po’ di fondamentali nella testa – e più ne hai meglio è, come nel caso del nostro ministro. E poi ci vuole la volontà, l’onestà di imparare, dai fatti e dalla vita, e da quello che la vita ti mette davanti.
Conte e il governo hanno fatto anche errori, intendiamoci. La sfida è difficilissima: ne faranno sicuramente ancora. Certi suoi critici preconcetti, pungitori di spillo, uomini forti immaginari, certi fenomeni internazionali però, dopo questi giorni saranno spazzati via dalla storia, anzi lo sono già stati – anche se non lo sanno. C’è una bella differenza.