Viviamo “strani giorni”. Giorni di sospensione e di incertezza, giorni vissuti in apnea. Giorni nei quali le ansie per sé e per i propri famigliari convivono con un rinnovato senso di appartenenza che ci rende partecipi di una comune sollecitudine, che fa delle vite degli altri un bene comune di cui preoccuparci. La trama del possibile “contagio” è una rete invisibile della quale sentiamo di essere parte. Avvertiamo, come se prima non fosse così, come se solo ora ce ne fossimo resi conto, il legame profondo che lega ciascuno alla comunità di cui è parte.
Viviamo strani giorni. Di scuole senza studenti, di preti rimasti soli a celebrare le messe, di musei, cinema e di teatri sbarrati, di presenze diradate nei reparti ospedalieri per l’allerta di possibili ricoveri, di treni svuotati degli abituali viaggiatori, di strade senza assembramenti, di anziani isolati nelle case di riposo, di saluti frettolosi e di amici e colleghi tenuti a distanza. Persino di referendum rinviati.
Viviamo strani giorni, di televisioni, giornali e social, ma anche di discorsi in famiglia, occupati dai quotidiani bollettini di guerra sull’andamento dell’epidemia. Abbiamo imparato i nomi di “virologi” di cui ignoravamo persino l’esistenza e di centri di cura ai quali avevamo riservato finora sguardi distratti.
Eppure, forse, non siamo davvero malati.
Viviamo strani giorni, è vero. Ma sono anche giorni nei quali un Paese esuberante e spesso indisciplinato, spesso un po’ anarchico e refrattario a rispettare le regole, sta mostrando una disciplina e un orgoglio insospettati. Giorni nei quali una società in guerra con la politica sembra improvvisamente riconciliata con chi si è assunto la responsabilità del comando. E in cui chi si discosta dal sentimento profondo di solidarietà e di compostezza che attraversa le fibre profonde del Paese viene colpito, giustamente, da uno stigma che sembra erodere le basi di un consenso un tempo granitico. Giorni nei quali anche i teorici del “meno tasse” e del “più società, meno Stato” sono zittiti dal coro quasi unanime di chi ha scoperto le virtù di un sistema sanitario costruito con pazienza negli anni del riformismo praticato, in cui anche i fanatici dell’”autonomia” sono isolati dalla consapevolezza della necessità di istituzioni che collaborino lealmente fra loro, ciascuna svolgendo disciplinatamente il proprio ruolo.
Sono giorni in cui, con una buona dose di improvvisazione, si scoprono nuove possibilità di ridurre gli spostamenti sperimentando forme di lavoro, di insegnamento, di apprendimento a distanza. Senza che ancora i limiti, le modalità, l’inquadramento giuridico del “nuovo” siano stati definiti. Giorni in cui siamo costretti ad accettare che non tutto, nel nostro futuro, può essere previsto, pianificato, che scienza e tecnica non hanno un potere assoluto sulla vita e sulla morte. E tanto meno possono avere un valore normativo sul piano etico e su quello politico. Giorni in cui sorgono legittimi e angosciosi interrogativi su come e perché un rapporto distorto, rapace, con la natura e con le sue risorse abbia potuto concorrere a tenere in scacco il nostro futuro. Giorni in cui i paradigmi che hanno segnato “il modello di sviluppo” dell’ultimo trentennio almeno, “la globalizzazione” e “il sovranismo” ci appaiono entrambi corresponsabili della nostra deriva verso l’autodistruzione.
“Ne usciremo diversi”, si sente dire. E sarà certamente così. Ma almanaccare sulle forme che assumerà in futuro la nostra convivenza non è il tema di oggi. Non lo è neppure recriminare sulle ragioni delle fragilità che stiamo dolorosamente scontando: sull’effetto della riduzione dei finanziamenti alla sanità, sugli squilibri che, in Regioni come la Lombardia, si sono determinati tra un settore pubblico sempre in trincea e un privato votato alla medicina di elezione, sull’indebolimento dei presidi di igiene e prevenzione, sulle modalità di reclutamento dei giovani medici, sulla distribuzione squilibrata degli ospedali, sull’assenza di specializzazioni in campo epidemiologico. Ma anche sugli effetti di avere puntato, in alcune aree del Paese, su settori economici – come il turismo e i servizi – più esposti all’esplosione delle “bolle”, sguarnendo gli investimenti nei settori produttivi.
Oggi l’unica opzione è pensare come uscirne. Agire perché questo avvenga al più presto, senza cedere alla tentazione di fughe in avanti verso la ricostruzione di un’economia che oggi soffre gli effetti congiunturali dell’epidemia ma che, domani, dovrà e potrà essere rilanciata, non avendo eroso le sue basi strutturali. Come è successo dopo altre – e più drammatiche – crisi. Con il coraggio di imprese e lavoratori e con un impegno più diretto dello Stato.
Oggi non ci resta che “incassare” i riconoscimenti per l’azione di un governo che abbiamo tenacemente voluto, come quello del direttore regionale per l’Europa dell’Oms: “Voglio esprimere il mio sincero apprezzamento per la leadership espressa dal ministro della Salute italiano Roberto Speranza. In questo momento l’Italia è la piattaforma per la competenza europea sul coronavirus Covid-19, dobbiamo tutti sostenerla”.