Gli ultimi quattro film di Kean Loach (Nuneaton, 17 giugno 1936) costituiscono, a loro modo, una quadrilogia. In successione: La parte degli angeli (2012); Jimmy’s Hall (2014); Io, Daniel Blake (2016); e, adesso, Sorry We Missed You. Cinema politico, nel senso migliore. Nessun altro autore, nell’ultimo decennio, è riuscito, come Ken Loach, a rivolgersi a un pubblico vasto, con una visione così fondata sui valori della sinistra, facendo ricorso, con altrettanta sapienza, non a studi o ricerche per addetti ai lavori, ma a uno strumento, ad altissimo impatto estetico e comunicativo, come il cinema.
Ne La parte degli angeli, vale a dire la componente di whisky che evapora dalle botti durante la lunga preparazione, è la storia di una piccola banda che si forma per mettere le mani su una partita del distillato di straordinario valore. Non senza motivazioni sociali. Il capo, Robbie, ha appena avuto da Leonie un figlio. Ha dei precedenti, che deve scontare attraverso “lavori socialmente utili”. Ed un talento: possiede una speciale sensibilità gustativa proprio per il whisky. Loach non ha dubbi da che parte stare insieme allo spettatore: dalla parte dei “vinti” in grado, tuttavia, di farcela.
Jimmy’s Hall è la storia di Jimmy Gralton, espulso dall’Irlanda, senza processo, nel 1933, in quanto comunista, dopo essere rientrato in patria nel 1932, a seguito di un esilio di dieci anni negli Stati Uniti. Insieme alla sua gente, riapre un vecchio locale, per farlo tornare ad essere ritrovo di socialità, cultura, divertimento. Un falansterio comunitario, destinato, però, a diventare oggetto di brutali aggressioni, sino ad venir distrutto in un incendio. E’ anche un ritratto del cammino fatto dal movimento laburista britannico; la lotta politica come qualcosa non di serioso e respingente, ma di gioioso e coinvolgente.
In I, Daniel Blake, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2016, ambientato a Newcastle, è un operaio, un falegname che però sa far tutto, poco sotto i sessanta. Ha avuto un infarto e, da un giorno all’altro, si ritrova schiacciato, senza scampo, in un ingranaggio infernale, non privo di tratti di ottuso sadismo. Intorno a lui, la nuova società della disintermediazione. La persona, sola, costretta ad interloquire, senza dialogo, con il nastro preregistrato di un call center. Non c’è ombra di partiti o di sindacati: se non gli spacci alimentari e le mense per i poveri. Daniel non professa ideologie; politicamente non sappiamo né cosa pensi, né – se vota – cosa voti; vorrebbe semplicemente essere visto, non rimanere invisibile.
La parte degli angeli, il gruppo.
Jimmy’s Hall, la comunità.
I, Daniel Blake, il singolo.
Sorry We Missed You, la famiglia.
Presentato in anteprima il 16 maggio 2019 a Cannes, Sorry we missed you è un esito della crisi del 2008. Un viaggio nella speranza ma anche nella disperazione. Raccontato con un realismo algido attraverso personaggi che non interpretano una parte, ma sono rappresentativi, nelle loro fisionomie, nei loro gesti, nelle loro coscienze, della vicenda sociale degli ultimi anni.
Lui, Ricky Turner (Kris Hitchen) perde il lavoro e deve abbandonare il sogno di acquistare una casa in proprio. Lei, Abby, lavora come assistente domiciliare per un’agenzia, non è pagata a ore, bensì in base al numero di visite. Scenario urbano, anche questa volta, a Newcastle. Il figlio sedicenne Sebastian “Seb” Turner (Rhys Stone) drop out tra insofferenza per la scuola e frequentazione di un gruppetto di coetanei con la passione per il graffitismo. La figlia Liza Jane Turner (Katie Proctor) undicenne, sensibile, destinata a somatizzare il progressivo scadimento delle relazioni familiari.
Richy coltiva la chimera di un lavoro autonomo. Ne emerge la descrizione, più eloquente e chiara di tanti voluminosi trattati, sulla nuova composizione sociale, tema centrale, per quanto, per lo più, ignorato, insieme ad un referto, agghiacciante, sul modello di società verso il quale stiamo andando – un modello nel quale, come ricorda OXFAM, organismo internazionale che si occupa di povertà, 2153 persone dispongono di una ricchezza corrispondente a circa il 60% della popolazione mondiale.
Il lavoro autonomo e l’illusione della flessibilità, viatico verso nuove forme di schiavitù, sino ad includere l’intero spazio-tempo. Il nuovo capitalismo dello scanner palmare, che tutto sa, preordina, orienta, registra.
All’orizzonte il profilo di un capitalismo “nuovo” dal punto di vista della rivoluzione digitale, “vecchio” nel disconoscimento dei diritti del lavoro. Il Gig Worker schiacciato dalla Gig Economy. Le piattaforme online, il lavoro a chiamata, temporaneo, a scadenza non annuale o mensile, ma settimanale o quotidiana. Se la modernità è aspirazione alla tutela del lavoro, qui abbiamo una torsione che guarda a un’epoca premoderna, a un medioevo postfordista. Specie nel settore dei trasporti e della logistica; già oggi le nostre città sono percorse, giorno e notte, da rider, shopper, fattorini.
Il film inizia con queste parole pronunciate durante un colloquio di lavoro: “Ho fatto di tutto, specie nell’edilizia, ora vorrei essere capo di me stesso”. “Bene, lavori con noi, sali a bordo, devi solo seguire determinati standard di consegna, non timbri il cartellino, sei padrone del tuo destino”. Un’attività in proprio, in franchising, per l’azienda PDF (dietro la cui sigla non è difficile leggere altre sigle). Consegna pacchi a domicilio. Taylorismo applicato al settore terziario. Ma per avere un furgone, bisogna comprarlo e occorrono 1000 sterline di anticipo.
Sin dal primo giorno comincia una corsa contro il tempo. La sindrone spaccasecondi. A disposizione un tempo prefissato. Scadenze di arrivo da rispettare, a qualunque condizione. Flessibilità inflessibile. Ciascun lavoratore, una scatola “in competizione con tutte le altre scatole del paese”. Diversamente da bravo si diventa bastardo. A bordo una bottiglia di plastica per urinare, non c’è il tempo per andare in bagno. Dalle 7 e mezzo del mattino alle 9 di sera; già: “e la giornata di 8 ore?”
A questa condizione si aggiunge un prontuario di prescrizioni, ingiunzioni, “comandamenti” del tipo: “non si familiarizza con i clienti”; “non si porta con sé la figlia sul furgone”; e conseguente provvista di sanzioni pecuniarie pesantissime al minimo sgarro, anche per aver “bucato tre spaccasecondi”. Il caporalato dentro un magazzino brulicante di furgoni bianchi in un sistema sul quale sovraintende un soggetto capace di ogni bassezza e di ogni ferocia. C’è un momento in cui Ricky chiede qualche giorno libero: “Ti costeranno 100 sterline l’uno”. Ricky si sente una “mosca impazzita”. Dentro qualcosa comincia a precipitare. Sino alla domanda: “Cosa ci stiamo facendo?” E alla risposta: “Non lo so, davvero non lo so”.
Questa la non vita di Ricky. Abbie Turner (Debbie Honeywood), sua moglie, deve spostarsi con i mezzi pubblici, l’auto venduta per aiutare il marito. Prima di entrare da una “cliente” passa un po’ di Vaporub sulle narici per attenuare il cattivo odore; poi tratta ciascuna fosse sua madre.
Il figlio Sebastian scende rapidamente i gradini che portano in fondo alla scala della dispersione scolastica, sino alla convocazione dei genitori a scuola per aver fatto a botte e a un provvedimento disciplinare con sospensione per 15 giorni. “Beccato a rubare” 15 sterline per tre bombolette spray, si ritrova davanti a un poliziotto che gli fa un discorso più umano e ragionevole di quello che ogni mattina il “caporale” fa a suo padre Ricky, il quale, per stare vicino al figlio, quel giorno, perde più di 500 sterline. Sino alla rivelazione di aver venduto “il giaccone di Gore-Tex” per acquistare delle bombolette. Allo scontro con il padre. Alla fuga da casa. Alla notte delle croci sulle foto di famiglia. Alla scomparsa delle chiavi del furgone. Alla sorella che bagna il letto e non riesce ad addormentarsi.
Sino al pestaggio, al pronto soccorso, e alle lunghe ore di attesa, alla rinuncia al referto del medico. Invece di una parola di consolazione, o di un qualche aiuto, nuove sanzioni: 500 sterline per due passaporti, 1000 sterline. Pestato a sangue, eppure, l’indomani, mentre in tre, Abby Sam e Liza cercano di trattenerlo, Ricky sale sul furgone: “Devo andare al lavoro, non ho altra scelta”.
Sorry We Missed You è un film vero, crudo, stilisticamente essenziale, un’eliotiana “terra desolata” come lo è la condizione della diseguaglianza nel nostro tempo.