Rabbia, impotenza, sconcerto. Sono i sentimenti che affollano la mia mente davanti all’ennesimo e clamoroso ratto operato ai danni dei curdi.
Alla giravolta americana si è aggiunta la carambola di Putin che ha preso sotto la sua ala protettiva Erdogan e ha liquidato i vecchi amici al nord della Siria. Ridimensionando lo stesso Assad, ingombrante alleato di sempre.
I russi regalano 100 km di territorio sovrano ad Ankara, sanciscono una sorta di doppia occupazione che ricaccia i curdi dalla propria patria naturale, dal luogo che hanno difeso contro i fascisti islamisti, in una guerra che ha fatto discutere il mondo.
Tutto questo nel silenzio assoluto di una comunità internazionale piegata e ricattata.
Ricattata è la Nato. Ma come è possibile che un membro dell’Alleanza atlantica stringa un patto con il suo avversario storico senza che il segretario generale Stoltemberg dica una parola? Delle due l’una: o la Turchia si mette fuori dalla Nato oppure non si capisce davvero a cosa serva ancora la Nato.
Ricattata è l’Europa. Ma è accettabile che, nonostante le condanne pressoché unanimi delle cancellerie europee, nessuno abbia messo in discussione l’accordo sui migranti davanti all’arroganza di Erdogan? Che non si sia riusciti a promuovere davvero un’iniziativa cogente sul blocco della vendita delle armi?
Ricattata è l’Onu. Che mai come oggi vive una condizione di paralisi totale su tutti i dossier principali: dall’Iran alla Palestina, dal Kashmir all’America Latina fino alla Siria. Non sono riusciti nemmeno a produrre una carta scritta o a offrire una mediazione degna di questo nome. Incredibile.
Qualcuno in queste ore ha detto che chi non difende i curdi non è degno di richiamarsi ai valori occidentali. Non so se questa sia la definizione più adatta. Non so quali siano i valori occidentali, so quali sono i valori universali. Uguaglianza, difesa dei diritti di tutte le minoranze, democrazia, laicità, parità tra uomini e donne.
In Medio Oriente non sono valori acquisiti. E le sperimentazioni che abbiamo fatto noi occidentali in quelle aree troppe volte hanno portato le lancette all’indietro. Quando ci abbiamo messo le mani, quando abbiamo costruito alleanze politiche e commerciali con dittature, monarchie e sultanati vecchi e nuovi, quando abbiamo immaginato di fare guerre per la democrazia ad essere sacrificati sono stati quasi sempre i diritti umani.
Abbiamo dunque poco da insegnare, ma molto da imparare.
Io dai curdi ho imparato molto.
Nel luglio di tre anni fa, dopo il golpe fallito, decidemmo di partire subito con due colleghi del gruppo di Sinistra Italiana, Erasmo Palazzotto, Franco Bordo e il nostro responsabile internazionale dell’ufficio legislativo Alessio Arconzo, e andare a Istanbul. Volammo in Turchia quattro giorni dopo il colpo di stato e fummo la prima delegazione europea a recarsi lì. Istanbul, che resta una delle città più vitali che abbia mai conosciuto, appariva cupa, rinchiusa in se stessa, non c’era un’anima viva per strada. Erdogan e il suo sistema stavano già pianificando una vendetta inesorabile, con le prime purghe verso amministratori pubblici, magistrati, giornalisti, vertici militari. Le caserme dell’esercito erano sbarrate da file infinite di autocompattatori per impedire ai militari di scappare e Piazza Taksim era – 24 ore su 24 – occupata dai sostenitori del dittatore turco che urlavano, pregavano e distribuivano minacce con cartelli, striscioni e gigantografie dei colpevoli del golpe.
Incontrammo tanti partner democratici, dal sindacato ad associazioni dei diritti umani. Ma l’incontro politico più importante lo facemmo con la leadership dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli. Un errore definirlo esclusivamente come il partito dei curdi. La sua leadership lo è, ma si tratta di un movimento che è nato dalla protesta di Gezi Park che ha radici ambientaliste, laburiste e soprattutto laiche. Il merito principale è aver inserito la questione nazionale curda all’interno di una battaglia più generale per i diritti civili e sociali.
Insomma, da questione etnica a grande questione democratica.
L’incontro fu molto toccante, stabilimmo un gemellaggio tra i nostri deputati e i parlamentari curdi che erano sotto processo e che rischiavano l’arresto per via dell’abolizione dell’immunità parlamentare. Ma la cosa più divertente fu la ramanzina che subimmo perché ci eravamo presentati in quattro, tutti maschi, mentre loro avevano composto una delegazione mista. La prossima volta – ci dissero – provate a garantire la parità di genere. Non soltanto una lezione di stile, ma un messaggio politico chiaro persino in quelle ore così drammatiche: i curdi erano più avanti della vecchia e stanca sinistra europea.
Selahattin Demirtaş e la sua vice Figen Yüksekdağ dopo poco furono arrestati, le prime vittime politiche della stretta del regime. Su di loro pendono condanne che assommano a 100 anni di carcere: una vergogna mondiale. Questo è quello che ho imparato da loro, in poche parole.
Per questo, oggi, penso che li abbiamo traditi per l’ennesima volta.