Sono ormai prossime le elezioni regionali in Calabria, Umbria ed Emilia-Romagna. Saranno un banco di prova, con un forte accento politico nazionale. Un termometro per misurare la febbre al Paese, al sud, al centro e al nord. In particolare in Emilia-Romagna, per il suo carattere simbolico, per la sua identità politica, per la sua collocazione geografica, in un nord ampiamente segnato da esperienze di governo a trazione leghista, dal Friuli al Veneto, dalla Lombardia al Piemonte sino alla Liguria.
Sbagliato minimizzare la portata del confronto. Giusto cercare di comprendere, per tempo, cosa c’è da fare.
Sia in Calabria, sia in Umbria, sia Emilia-Romagna, siamo in un contesto di contendibilità; in un sistema, ancora tripolare, nel quale il centrosinistra è una delle tre possibili minoranze e per fare maggioranza deve puntare sui contenuti ma anche su una politica delle alleanze.
Quindi, un passaggio delicato, perché, in qualche modo, da un lato, intrecciato alle sorti del nuovo governo nazionale; dall’altro, rovesciando la considerazione, perché connesso alla capacità di portare il senso della novità intervenuta sul piano nazionale nella proposta da presentare ai cittadini per il rinnovo della legislatura regionale.
Vorrei fermare l’attenzione sull’Emilia-Romagna. E’ vero: si vince per un voto in più rispetto agli altri; ma non credo che sia consigliabile provocare oltre un certo limite la buona sorte. Occorrono idee-guida, solide relazioni con il tessuto sociale, una visione all’altezza della sfida.
Senza schematismi. Senza politicismi. Senza paure.
In presenza del contratto giallo-verde al governo nazionale, la partita in Emilia-Romagna non sarebbe stata facile. A seguito dell’alleanza rosso-gialla potrebbe non esserlo. A meno che non si dia un cambio di passo. Un’inversione di tendenza. In entrambi i casi, il tema non è tanto cosa fanno gli altri, quanto cosa facciamo noi, come ci si dispone sul campo.
Sarebbe sbagliato pensare ad accordi calati dall’alto. Occhio all’effetto rimpallo. Corretto, piuttosto, il suggerimento di Pier Luigi Bersani, di cominciare a rompere, dal basso, il muro d’incomunicabilità tra gli elettori di sinistra e quelli del Movimento Cinquestelle. Se ciò può portare alla condivisione di un progetto, prendendo il buono che è stato fatto, unendolo a ciò che di nuovo c’è da fare, basta tenere a mente che la maggioranza che oggi regge le sorti del governo nazionale è formata da Pd, M5s e LeU. Dovrebbe essere questo il presupposto sulla base del quale, tenendo conto delle specificità territoriali, provare a costruire una proposta politica nuova.
Certo, in parte ne va della stabilità di governo, della prosecuzione dell’esperimento. In parte di un più fisiologico confronto bipolare. A maggior ragione dovrebbe esserci una cabina di regia mista, regionale e nazionale.
Dopodiché i dissidenti del M5s, come altre forze, possono portare un contributo, ma forse non bastano, rispetto alla questione, più strategica, di un rapporto di rispetto, dialogo e possibile collaborazione con il M5s.
Allo tempo stesso non so quanto possa rivelarsi efficace il cosiddetto “metterci la faccia”, il protagonismo solipsistico della personalizzazione, quanto non sia meglio guardare, insieme, in faccia, la realtà. Non contano solo i risultati raggiunti, sui quali i bilanci è bene siano pacati e sobri, evitando l’enfasi che fa perdere di vista i problemi, quanto la capacità di affrontare nuove sfide.
Proviamo a dare un’occhiata ai numeri, costituiscono sempre una base utile per ragionare.
L’ultima volta in cui si è votato in Emilia-Romagna, un’era geologica fa, è stato nel 2014, sulla base di primarie che si sono svolte domenica 28 settembre. 58.199 i votanti. I giornali parlarono, allora, delle “votazioni meno partecipate della storia del centrosinistra emiliano-romagnolo”. L’affluenza al di sotto dei 406.899 elettori della sfida a tre Renzi-Cuperlo-Civati del 2013, o dei 151.399 elettori per la scelta dei parlamentari nel dicembre 2012. Dopo che, sul filo di lana, ebbe a sfilarsi Matteo Richetti, oggi nel gruppo misto, dopo il mancato voto di fiducia al nuovo governo, Stefano Bonaccini prevalse con il 60,9% contro Roberto Balzani, con il 39,1%, poi presidente regionale dell’Ibc.
Le “secondarie”, le elezioni vere e proprie, il 23 novembre 2014. Affluenza al 37,71% contro il 68,08% dell’occasione precedente, nel 2010. Il voto anticipato, rispetto alla fisiologica scadenza del marzo 2015 a causa delle non dovute dimissioni di Vasco Errani, formalizzate il 23 luglio 2014, per una questione dalla quale Errani è stato assolto, con formula piena, due anni più tardi, il 21 giugno 2016, perché “il fatto non sussiste”. A proposito di come certe azioni giudiziarie possano intervenire nell’orientare, in un modo o nell’altro, la vicenda politico-istituzionale.
Nella consultazione elettorale tra il 28 e il 29 marzo 2010 Errani aveva ottenuto il 52,07%, pari a 1.197.789 voti, contro Anna Maria Bernini, attuale capogruppo alla Camera di Forza Italia, con il 36,73%, pari a 844.915 voti.
Bonaccini vince con il 49,5%, sotto il 50%, con 615.723 voti. Seguono Alan Fabbri, per la Lega, eletto sindaco di Ferrara, a seguito delle ultime amministrative del 26 maggio, con il 29,85%, pari a 374.736 voti. Giulia Gibertoni, per il M5s, con il 13.30%, pari a 167.022 voti.
Nel frattempo, nelle ultime elezioni europee, la Lega, in Emilia-Romagna, diventa il primo partito col 33,7%; il Pd scende al al 31,2%; il M5S si ferma al 12,8%.
Nell’istantanea del 26 maggio la Lega è primo partito in Emilia-Romagna, un fatto non irrilevante.
Sempre il 26 maggio scorso si son tenute le elezioni per i Comuni che, in Emilia-Romagna, han visto l’affermazione di una più inclusiva proposta di centrosinistra, a seguito di un trend che ha iniziato ad emergere domenica 10 febbraio in Abruzzo, domenica 24 febbraio in Sardegna, domenica 24 marzo in Basilicata, ma non domenica 26 maggio in Piemonte, e che, in Emilia-Romagna, ha dato segnali interessanti, specialmente nei territori di Bologna e Modena.
Non senza una contraddizione: in Emilia-Romagna, nello stesso spazio-tempo, una parte degli elettori hanno votato per il centrosinistra nei Comuni, per la Lega nelle europee. Un voto disgiunto, fluido e disincantato.
Non ci sono più le “regioni rosse”, neanche l’Emilia-Romagna lo è più, da tempo, come ha dimostrato il caso Imola, e, prima ancora, comuni non piccoli come San Giovanni in Persiceto o Budrio, e, ben dieci anni fa, nel 1999, la stessa Bologna, pur a seguito di una vicenda che ha le sue peculiarità, con Giorgio Guazzaloca.
Gli elettori sanno sempre quello che fanno, e, se per caso non lo sanno, meritano comunque rispetto. Sapevano dello choc che avrebbe provocato la vittoria di Guazzaloca prima ancora di produrla. Non temevano, o addirittura auspicavano, il trambusto che sarebbe derivato, a Imola, dalla vittoria del M5s, un anno fa, e che ha portato il Comune, da un anno a questa parte, in forte affanno.
Gli elettori sanno benissimo cos’è la Lega. Ma se il tema all’ordine del giorno è voltare pagina, voltano pagina.
Mi ha colpito, quando l’ho letta, una cronaca di Giuseppe Alberto Falci per l’“Huffington Post” il 3 agosto scorso. Titolo La villa Certosa di Salvini. Descriveva quel momento topico, a pochi giorni dallo showdown della mozione di sfiducia promossa dalla Lega nei confronti di Conte, con richiesta di un voto anticipato e “pieni poteri”.
La scena madre al Papeete Beach, oggetto poi di tante ironie, con un Salvini ancora ministro dell’Interno, descritto da Falci tra “selfie, birretta, bagnetto, e ancora selfie, mojito e tweet”, non senza “inno di Mameli intonato da coreografia di cubiste”. Situazione che porterà il capogruppo alla Camera del M5s Francesco D’Uva, nel corso delle dichiarazioni di voto al governo Conte, al gioco di parole “non capisco il mojito della crisi”.
Poi, ad un certo punto, Falci aggiungeva: “nell’attesa di decidere il da farsi, Salvini sogna l’Emilia Romagna”.
L’Istituto Cattaneo, a motivo dell’apparente contraddizione emersa nel voto del 26 maggio tra il primato della Lega in Emilia-Romagna e la complessiva affermazione delle coalizioni di centrosinistra nei Comuni, ha spiegato che è stato il traino di Salvini a far salire il risultato della Lega alle europee. Per questo è probabile che, per quanto ammaccato dagli sviluppi recenti, Salvini si affidi a Salvini, con una forte esposizione in Emilia-Romagna, e che l’antagonista sarà lui, in prima persona.
Con un rischio: trasformare le elezioni regionali in un pretestuoso dibattito ideologico sul “voto anticipato sì o no”, derubricando a questioni secondarie le attese dei cittadini, oscurando, così, il confronto di merito sulle diverse opzioni in campo.
Per questo è importante con quale bussola, con quale equipaggiamento, programmatico e politico, un nuovo centrosinistra si appresta a chiedere la fiducia degli elettori. Non sopravvalutando Salvini. Non sottovalutandolo.
Il marketing è uno degli strumenti del nostro tempo. Come i “social”. Ma forse questo è uno di quei casi in cui serve la politica. Vale a dire: coscienza dei limiti, valutazione delle forze in campo, piedi per terra, testa nel mondo, capacità di individuare i punti deboli, evitando che diventino forti per gli altri.
Si deve sentire, si deve vedere che si sta lavorando per aprire un cantiere ampio e inclusivo. Senza qualcuno che distribuisce le parti in commedia. Lasciando stare la terminologia datata dei “modelli” e dei “laboratori”. Evitando ogni autocompiacimento. L’esito dipenderà dalla credibilità di un lavoro serio e concreto. Tra la gente. Meglio ancora: con la gente che fa più fatica.
Quindi, no panic, impegno. Anche se la campagna, prima di una coalizione e di un programma condivisi, è già partita, con il format Siamo l’Emilia-Romagna e messaggi sui quali ciascuno può avere la sua libera opinione e di cui misureremo l’efficacia.
Nel frattempo, Lucia Borgonzoni, ex sottosegretaria al MiBAC, nipote di Aldo Borgonzoni, pittore bolognese della Resistenza e del lavoro, ben considerato negli anni Cinquanta in Unione Sovietica, intervenuta nella discussione per la fiducia con la maglietta “parlateci di Bibbiano”, è già stata indicata per la Lega come candidata alla presidenza della Regione Emilia-Romagna. Nel 2016, nelle ultime elezioni amministrative a Bologna, è arrivata al secondo turno con 69.660 voti (45,36%), 30.000 in più rispetto al primo turno, quando la Lega, a livello nazionale, si attestava a poco più del 6%.
Com’è noto, l’Emilia-Romagna si è inserita nella proposta di autonomia differenziata, insieme a Lombardia e Veneto, a guida leghista, per quanto con motivazioni e finalità diverse. Ora, non si tratta di riabilitare vecchie logiche neo-centralistiche, contrarie all’articolo 5 della Costituzione, in uno Stato, come quello italiano, che ha sempre mostrato di poggiare su un “centro debole”.
La questione ha un profilo squisitamente politico. Il fatto che l’Emilia-Romagna si ritrovi al fianco di governi leghisti, per quanto portando le proprie ragioni, nel momento in cui deve affrontare una campagna elettorale contro la Lega, non offre quella chiarezza che occorrerebbe a chi deve esprimere il suo libero voto.
Era davvero necessario piantare lì una bandierina, col rischio di infilarsi nella hegeliana “notte nella quale tutte le vacche sono nere”?
Non bisogna avere pregiudizi, si può anche capire che questa posizione possa avere delle spiegazioni, da parte della Regione Emilia-Romagna, dopo il voto del 23 novembre 2014, con una Lega salita sino al 29,85%, in un tentativo di appeasement, di contenimento. Il risultato, però, è che oggi la Lega è il primo partito in Regione. Forse quel calcolo si è rivelato non del tutto ben impostato.
Gli indicatori di fondo del sistema territoriale emiliano-romagnolo sono buoni; alla politica non si chiede di prendersene i meriti; semmai di riconoscerne i meriti.
Non contano tanto i risultati raggiunti quanto la capacità di individuare i nuovi traguardi. Per politiche pubbliche ben orientate su alcune questioni di fondo: lavoro, ambiente, sanità, scuola. Innovando, senza limitarsi a dir bene di quel che c’è.
Mettendo al centro la questione sociale e il contrasto alle diseguaglianze.
Quindi, partecipazione. Nella crisi democratica, le elezioni sono fondamentali, ma non più sufficienti per garantire la piena fruizione dei diritti di cittadinanza. Nell’arco di una legislatura, la società corre, servono rinnovati legami sociali. Abbassando l’asticella della responsabilità di governo sino a includere la comunità.
La nuova Regione deve essere più sistema territoriale, meno apparato.
Sul piano politico, bisogna evitare la sommatoria delle sigle. Puntando sulla condivisione delle scelte. Coinvolgendo coloro che sono disponibili a dare una mano a partire dal mondo del civismo. C’è da ricostruire un campo di forze, con due paletti: il radicamento nella Costituzione, il rispetto delle persone. Ecco, prima le persone. Riprendendo il gusto per i processi dal basso, dalle periferie, dalle zone più decentrate, dagli invisibili.
Proprio la storia dell’Emilia-Romagna insegna che non serve coltivare nostalgie, occorre un incessante rovello per la sperimentazione del nuovo.
Quella dell’Emilia-Romagna è una storia, sì, ma di cambiamenti.
Infine, una considerazione sul territorio bolognese. Qui il centrosinistra, nel rinnovo dei mandati amministrativi, ha registrato buoni risultati, comparativamente migliori che altrove. Superata la visione policentrica, lasciando da parte l’espressione di “capitale” che comporta solo incomprensioni o fraintendimenti, resta il fatto che l’area metropolitana bolognese rappresenta un quarto della popolazione regionale e che sul nodo delle infrastrutture è oggi più che mai “porta di accesso”.
Se la politica vuol ritessere il filo della sovranità popolare, deve fare attenzione: democrazia è demografia.
La partita è importante, se si vuol dare consistenza, territoriale ed elettorale, ad una nuova proposta di governo, questa volta Bologna, nel congedo da un’astratta vocazione maggioritaria, rilanciando lo spirito di coalizione, può fare la differenza.
Qui, solo un anno fa, Liberi e Uguali ha avuto un risultato di tutto rispetto, grazie a candidature come quelle di Pier Luigi Bersani, Vasco Errani, Maria Cecilia Guerra (alla quale va un fraterno augurio di buon lavoro nel nuovo incarico al MEF), e grazie a un volontariato politico un po’ meglio organizzato, attestandosi, nella provincia di Bologna, intorno al 10%. In una situazione nella quale ogni voto può fare la differenza, forse è il caso di tenerne conto.