Il mio Paese, l’Italia, lo intravedo da oltre le Alpi, dall’umida e afosa piana su cui sorge Berlino, mia città di residenza.
Guardare all’Italia da Berlino vuol dire guardare con attenzione sia alla formazione del nostro nuovo governo sia alle prossime elezioni regionali tedesche, in cui il rosso (il Partito Socialista) e il giallo (un insieme di sinistre a sinistra e verdi) si prevede si contrarranno in favore di un nero (l’Alleanza per la Germania) rappresentato da un partito di estrema destra la cui crescita mette in discussione tutta l’era Merkel (a livello sia di alleanza politiche che di programmi e visioni di futuro).
La realtà viene prima della politica. Mentre la prima ci parla di una virata ideale dei popoli europei, la seconda ci propone alleanze, contratti di governo, rimpasti che, come ha osservato Arturo Parisi, rischiano di essere vissuti dalla popolazione come un tradimento, così riprendendo la spaccatura anglosassone fra coloro che sulla Brexit vorrebbero poter ridiscutere tempi e condizioni e coloro che pur di segnare la scissione son pronti (come il premier Boris Johnson) anche a sospendere il Parlamento (per evitare il rischio di tradimento, appunto, del volere del popolo).
A farsi garanti della Costituzione si rischia di finire a non vedere che anche la Suprema Carta è ultimamente inutile (e idolatrica) se è vista solo come un richiamo formale a valori, contro i quali i propri avversari (i neri) possono essere tacciati di essere fobici (omofobici, ambientefobici, razzisti).
A differenza che in Italia, in Germania (dove formazione e selezione della classe dirigente, a tutti i livelli, è altra cosa rispetto alla Penisola) hanno capito meglio di noi che la nuova destra va compresa, va riconosciuta uno sfidante ideale prim’ancora che elettorale.
Serve costruire bene comune, andare oltre le differenze: non demonizzare gli altri (Salvini incluso) ma aiutarli a fare insieme azioni condivise di bene comune.
C’è chi può pensare che questo non sia possibile, che nessuna persona di buona volontà possa trovare un progetto comune con Salvini, Orban, Le Pen o Trump.
Chi pensa così però non può essere ritenuto in grado di fronteggiare idealmente queste visioni politiche: solo chi “di sinistra” saprà accogliere di cuore Salvini e ogni altra persona come un fratello da amare e da custodire, da perdonare e attendere sulla strada della ricerca condivisa del vero bene, solo questi potranno dire di saper sconfiggere i muri. Gli altri si riveleranno solo dei ciarlatani, magari utili in quello che fanno, ma non credibili come oracoli di una nuova, vera sinistra all’altezza delle capacità attuali dei neri europei.
Non è celandosi dietro Conte, o la santa crociata (con tanto di neo-beatificata pirata senza reggiseno) che la “sinistra” tornerà ad essere un vocabolario di senso rivoluzionario.
Per l’ordinaria amministrazione (contrattare un po’ con l’Europa, tirare la cinghia e svendere l’Italia ancor di più alla finanza) non serve la sinistra.
La sinistra è per la rivoluzione, pacifica e democratica, ma anzitutto ideale e utopia. La sinistra dovrebbe essere la forza chiamata non a conservare lo status quo (facendosi ricordare per il bonus da 80 euro o per le trivelle), ma a comprendere la luce (con partiti capaci di essere strumento di sapienza, di ricerca di verità tecniche ed etiche insieme) e la rifrazione dei colori.
Ci servono governi arcobaleno (non giallo rossi e neri), ma per questo serve anzitutto una società (e una socialità) che sappia far incontrare e mettere in dialogo autentico tutte le diversità di cui l’Italia si compone.
Questo non può avvenire su di una piattaforma on-line (peraltro privata) o col battimano dei dirigenti di partito al termine delle loro riunioni.
Anziché occuparsi di sé stessi, delle proprie poltrone (già concentrandosi sulla priorità della legge elettorale), gli eletti seri farebbero bene a riproporre la questione del “metodo democratico” di partiti e sindacati, ovvero del fatto che l’Italia dal 1948 ancora attende una legge (seria, come quella tedesca) che spieghi come tecnicamente costruire buoni partiti e buoni sindacati, capaci di costruire cooperazione ed inclusione sociali.
Se il rosso non torna ad essere strutturale (a cercare la rivoluzione come riforma delle strutture), se cioè non ritorna sé stesso e si rimette a studiare (anziché limitarsi ad una vita cerebrale sui social media) il nero continuerà a crescere e, anche da noi, finirà per mangiarsi sia il rosso che il giallo.
Questo almeno io concludo dalla lettura congiunta di Parisi sull’Italia e di Villani-Lubelli sul voto in Germania Est.