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Un’occasione dopo il naufragio. Riflessioni sul libro “Titanic” e su oggi

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Non è una recensione. Sarebbe fuori tempo massimo. Piuttosto, una riflessione sulla scia dell’eco avuta dal libro di Chiara Geloni, Titanic (postfazione di Pier Luigi Bersani, Roma, PaperFirst, 2019). A suo modo un libro che ha segnato l’estate 2019 con tante presentazioni in giro per l’Italia. Un diario di bordo che, da quando è uscito, ha contribuito ad alimentare il dibattito nella sinistra, a conferma del fatto che, siccome è mancato un franco bilancio degli ultimi anni, ciò che aiuta a capire contribuisce a colmare la lacuna. Una testimonianza che fa riemergere un’epoca lontana, eppure recente, non ancora definitivamente superata. La Pompei del centrosinistra, dopo l’eruzione che lo ha sommerso e per 14 mesi pietrificato, anche se in uno scenario di rovine meno suggestivo di quello ai piedi del Vesuvio.

Paul Valéry, nei Quaderni, ai quali amava dedicare le prime ore del mattino tra dense le volute di fumo, annotava che ci sono momenti “in cui ciò che sta per essere si ferma per apparire insieme a tutto ciò che potrebbe essere”. E’ l’ordine del possibile di fronte al disordine del mondo. Ovvero quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Chiara Geloni coglie bene questo scarto nella vicenda del Pd e del centrosinistra. Ma il suo libro non è solo un modo per fare i conti con la disillusione; nonostante tutto, anche per coltivare una speranza. Il senso di una chance che rimane, posto che si voglia riconoscerla, siccome non c’è cosa più invisibile di quella che non si vuol vedere.

Una chance che, in queste ore, sta trasformandosi in un tentativo di dar vita a un nuovo governo tra centrosinistra e Movimento Cinque Stelle, che non sappiamo se approderà a qualcosa di concreto serio e utile per il Paese; una chance che fa tuttavia parte delle ragioni che sono a fondamento di Articolo Uno.

Quello scarto tra speranza e disillusione ha dato forma ad un sentimento diffuso. Non è che chi è rimasto nel Pd non lo avverta, al pari di chi, nel Pd, non c’è più. In fondo la storia dell’Ulivo prima, del Pd poi, sin quando l’abbiamo condivisa, ha avuto il pregio di dispiegare, davanti a sé, il senso di un’apertura, di un pezzetto di storia, politica e civile, da scrivere nel legame tra un certo impianto valoriale e il popolo della sinistra. Non senza la coscienza di farlo nel pieno di una disputa sulla direzione da prendere. La politica, come la rivoluzione, infatti, non è un pranzo di gala. E’ anche lotta politica. Con un ampio corredo di asprezze, sgradevolezze, amarezze.

Poi ci sono quelli delle sentenze definitive, secondo i quali non poteva che finire così. Chissà, forse hanno ragione loro. Ma se è finita così, è possibile che vi siano state delle responsabilità. In questo senso l’analogia con la detective story è tutt’altro che impropria. L’immagine del Titanic evocativa di un naufragio che non ha risparmiato nessuno. Anche coloro che pensavano di mettersi in salvo. Un naufragio con spettatore, avrebbe detto Hans Blumenberg.

La crisi dell’ultimo decennio, in Italia, non è stata solo economica e sociale, ma anche più immateriale, nel senso che, nella crisi, le strutture della democrazia italiana hanno accentuato una loro strutturale fragilità. Basta vedere, nella situazione odierna, il ruolo delle istituzioni fondamentali; voglio dire, le tre classiche del sistema liberal-democratico: parlamento, ordine giudiziario, esecutivo. Anche qui, al di là delle persone, ovvero del maggiore o del minor grado della loro statura e della loro qualità.

Vengo al punto. Il Pd, a seguito del voto del 24-25 febbraio 2013, ottiene il maggior peso nel nuovo parlamento ed è messo alla prova della coerenza tra le parole e i fatti. Propugna la responsabilità; manca proprio laddove avrebbe dovuto esprimerla, nel delineare il nuovo assetto istituzionale: sulla presidenza della Repubblica – prima Marini, poi Prodi con i 101, cifra apparentemente precisa, in realtà piuttosto approssimativa – sino ad approdare a un secondo mandato, non del tutto rituale, di Napolitano.

Ma c’è un fatto che, retrospettivamente, risulta più evidente. Da un certo punto in avanti l’indirizzo politico non viene più esercitato nel luogo della sovranità popolare, ma dislocato nella sovranità di partito.

Quella che è stata detta la “non vittoria”, in virtù del premio di maggioranza garantito allora dal Porcellum fornisce al Pd la possibilità di formare una maggioranza grazie a un patto di coalizione con altre forze (dalla compagine ex montiana a quella alfaniana). Il voto del 2013, depositato in parlamento, consente al Pd di governare, de facto, un’intera legislatura. Da un lato gli sgambetti nella costruzione dell’edificio istituzionale in grado di rispettare il voto; dall’altro l’affidarsi a un responso che risulta squisitamente di partito.

Sino al progetto di riforma costituzionale e al referendum del 4 dicembre, impostato sulla base di una contraddizione logica prima ancora che politica. All’inizio: vota sì per il cambiamento. Alla fine: attenzione che se non voti sì, cambia tutto. Con la commistione tra comitati per il sì, partito, governo.

La crisi del Pd ma anche del centrosinistra, al di la delle intenzioni, è dentro questo duplice fraintendimento. In una strana forma di sovranismo di partito, la vocazione maggioritaria va avvitandosi su se stessa, sino a smarrire il legame con la propria ragione sociale e col proprio popolo.

Se il Pd doveva essere una prosecuzione dell’Ulivo con altri mezzi, tra le sue missioni era quella di non rompere la connessione, né politica né sentimentale, con l’elettorato di sinistra.

Per certi versi è proprio da lì che occorre ripartire. In questo senso, è corretta l’idea di una rivisitazione dello Statuto. Significa andare alla radice del problema. Ne va del futuro non solo del Pd, anche del rilancio di uno spirito di coalizione per il centrosinistra nelle sue rinnovate articolazioni.

Ma occorre uscire dalla ginnastica muscolare della lotta politica interna ammantata di contendibilità perché, in tal modo, non si fa che assimilare il veleno dello schema amico/nemico. Superare le correnti intese come centri di potere che, secondo la logica delle canne d’organo, si riflettono sul territorio, dal più grigio ufficio romano sino al più sperduto paese della grande provincia italiana. Vivere il pluralismo come un confronto di idee. Ripensare ad una proposta larga plurale inclusiva.

Certo, non si rimettono indietro le lancette della storia e promuovere il nuovo non è un compito che possa spettare solo alle forze sovraniste.

Oggi è nuovo non il tweet di giornata, ma ciò che riesce a superare le difficoltà che ereditiamo dal 4 marzo 2018. Nella piena consapevolezza dei problemi, grandi e complessi, e con un po’ più di rispetto per i contenuti. Le facce, come l’intendenza, seguiranno. Il faccismo non ha risolto nulla, anzi ha aggravato la situazione.

Il libro di Chiara Geloni, in fondo, racconta questa storia, restituendo un frammento di vita vissuta, per il modo con cui formula valutazioni senza fare sconti a nessuno. Ciò che rende questa testimonianza qualcosa di autentico è la visione che la sostiene, nella ricerca di un filo da riprendere, guardando avanti. Nella vita come in politica non basta avere ragione. Anche perché gli altri non sono sempre disposti a riconoscerlo. Ma avere avuto almeno un po’ ragione conferisce dignità alle scelte compiute.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.