Come definire il lavoro di Andrea Colasio, studioso dei partiti politici e deputato per due legislature, assessore alla Cultura nel Comune di Padova, ne Il tempo dell’Ulivo, introduzione di Arturo Parisi, Bologna, il Mulino, 2018? L’immagine è prossima a quella dell’archeologo impegnato a trarre alla luce nuovi reperti. Alla ricerca di un tempo, però, non solo perduto. Quello dell’Ulivo delle origini. Circa un quarto di secolo fa, poi inabissato e collocato in una prospettiva storica, accanto ad altre stagioni, più o meno compiute, dal punto di vista dell’innovazione politica.
Se consideriamo il tema in questi termini possiamo forse evitare di finire negli schemi prefissati delle idee ricevute, curvate a seconda dei punti di vista, aprendoci a una rilettura più in grado di cogliere la ricchezza dei motivi, senza mancare di rivolgere uno sguardo, anche critico, agli esiti concreti. Entriamo nello scenario della fine della prima Repubblica, conseguenza di un repentino mutare del quadro internazionale. Tra pochi mesi si ricorderà la caduta del Muro di Berlino. Mai trascurare che quel crollo avvenne, inatteso e decisivo, il 9 novembre 1989. Che appena un anno più tardi intervenne, tra luci e ombre, la riunificazione tedesca, con tutto ciò che essa ha significato dal punto di vista di una ricomposizione del continente diviso in due blocchi, contribuendo a dare impulso a un’ulteriore fase del progetto europeo con il Trattato di Maastricht sottoscritto il 7 febbraio 1992. Nell’arco di poco più di un anno, un’altra Europa, quindi, un’altra Italia.
In quel contesto, anche in relazione al referendum sulla preferenza unica, vengono varate due leggi frutto di un parto gemellare. Da un lato, il 25 marzo 1993, la 81, quella dell’elezione diretta dei sindaci. Dall’altro, il 4 agosto 1993, la “legge Mattarella”, alla quale Giovanni Sartori conferì l’appellativo di Mattarellum (da cui i latinismi successivi: Porcellum, Consultellum, Italicum, Rosatellum). Si potrebbe dire che, a dispetto dei protagonisti di facciata, un vero artefice, sostanziale, della fase che, in tal modo, si aprì, sia stato, nelle vesti di legislatore, proprio l’attuale presidente della Repubblica.
L’Ulivo è stato non solo ma anche un’occasione di incontro tra la sinistra di governo e gli sviluppi ulteriori della questione cattolica. Idea di una coalizione di partiti insieme al maturare di una soggettività politica oltre i partiti. Un processo di trasformazione dei partiti sospinti verso una sempre più accentuata convergenza. Dopo il primo Ulivo, tra il 1999 e il 2001, pressoché contestualmente, nascono i Democratici di Sinistra e la Margherita. Entrambe le formazioni frutto di nuove aggregazioni. I Ds dal Pds, con i repubblicani di Giorgio Bogi, i comunisti unitari di Famiano Crucianelli, la federazione laburista di Valdo Spini e Giorgio Ruffolo, i riformatori per l’Europa di Giorgio Benvenuto, i cristiano sociali di Pierre Carniti ed Ermanno Gorrieri. La Margherita con i popolari, i democratici dell’Asinello, alcuni sindaci, i liberali di Zanone, i laici di Maccanico.
Quando si decide di trasformare l’Ulivo, che aveva ottenuto un buon risultato, superiore al 30%, alle elezioni regionali del 2005 e politiche del 2006, nel Pd, fu chiaro, a non pochi osservatori, che quel progetto era carente di un adeguato approfondimento sul piano della condivisione di una cultura politica. Come poi gli sviluppi successivi si sono incaricati di evidenziare. Tra i documenti a fondamento dell’atto di nascita, un congegno statutario più interessato a regolare, suscitandola ed enfatizzandola, la contendibilità interna, piuttosto che per attrezzare il nuovo soggetto politico di una capacità sfidante verso gli avversari. L’identificazione tra segretario e candidato in pectore alla presidenza del consiglio dei ministri ha accentuato il profilo di una verticalizzazione, ovvero di una personalizzazione, con elementi più di comando che di governo di un’unità tra diversi. In questo caso si potrebbe dire: personae sunt consequentia rerum.
Le stesse primarie, utili a individuare i profili che si propongono di assumere responsabilità istituzionali, contraddittorie verso gli iscritti a proposito degli incarichi di partito, possono contribuire a rafforzare una proposta politica, non a sostituirla. Le regole, in politica, ragione necessaria, mai sufficiente.
Ma il libro di Andrea Colasio induce anche una riflessione sull’oggi. Di fronte all’implosione della prima fase nella vita della Repubblica, per le due questioni di fondo che hanno caratterizzato la vicenda italiana – quella economica-sociale e quella morale – il sistema, almeno nel suo nuovo inizio, sembra avviato verso una soluzione bipolare. Come sappiamo, da un certo punto in avanti non sarà più così.
Nel 1993, sulla base di un documento predisposto da Giuliano Urbani, Silvio Berlusconi pensa a un contenitore utile a raccogliere, almeno in parte, se non per buona parte parte, il bacino elettorale del vecchio pentapartito. Il 23 novembre 1993, a Casalecchio, nel suo ruolo di presidente del gruppo Fininvest, presagio di un conflitto di interessi che avrebbe segnato tutta la parabola successiva, partecipa all’inaugurazione del centro commerciale Gran Reno, con un endorsement a favore di Gianfranco Fini che, di lì a qualche giorno, avrebbe sfidato Francesco Rutelli, nel ballottaggio per il sindaco di Roma. Poi il 26 gennaio 1994 annuncia l’intenzione di “scendere in campo” lanciando un nuovo “prodotto”, Forza Italia, con un’operazione di marketing, portando in politica parte del management delle proprie aziende.
Berlusconi vince le elezioni del 27-28 marzo 1994, grazie a un sistema di alleanze, con Bossi al nord, con Fini al sud, raccogliendo circa sedici milioni e mezzo di voti. Però, attenzione: “L’alleanza dei progressisti” ottiene più di tredici milioni di voti e il “Patto per l’Italia” oltre sei milioni di voti. Berlusconi e il centrodestra si affermano anche grazie a quella divisione. E’ un choc sia per la sinistra, sia per sensibilità non di sinistra. Nel 1994 Indro Montanelli lascia il “Il Giornale”, che aveva fondato e diretto per quasi vent’anni, per dar vita alla “La Voce”, che durerà esattamente un anno, dal 22 marzo 1994 al 12 aprile 1995.
A quello choc le forze del centrosinistra come reagiscono? Impostando un’alternativa. Già nel febbraio 1995 Beniamino Andreatta sostiene la candidatura di Romano Prodi spaccando il PPI. Dopo un anno, nelle elezioni del 21 aprile 1996, la coalizione dell’Ulivo vince, anche grazie a una precisa strategia politica che comprendeva la desistenza con Rifondazione e un accordo con Dini. Quindi il primo governo Prodi sino alla mancata fiducia in Parlamento per un voto: 313 a 312.
Ora facciamoci una domanda: e oggi? Anche il 4 marzo è stato uno choc. Quel voto ha mostrato come la legislatura 2013-2018 abbia fatto da incubatrice alla deriva giallo-verde. Tra l’aprile 1994 e il febbraio 1995 non è trascorso un anno. Dal 4 marzo ad oggi, 17 mesi. Il cantiere per l’alternativa, non la mera enunciazione del tema, tuttora ben lontano dall’essere stato avviato. Sia chiaro, si tratta di due situazioni profondamente diverse. Ma non dal punto di vista dell’esigenza di rimboccarsi le maniche. Non è questione di giorni o di mesi. Ma di capacità e volontà di tirare una riga. In democrazia il problema non è perdere le elezioni. Ma la reazione di fronte alla sconfitta. Questo fa la differenza.
L’Ulivo, allora, è stata l’alternativa possibile, in quanto, al di là delle visioni che si sono confrontate e scontrate, tra vocazione maggioritaria e spirito di coalizione, non senza limiti ed errori, ha rappresentato un’altra idea dell’Italia. L’equipaggiamento per affrontare la sfida. Oggi non si tratta di tornare all’Ulivo, ma di guardare avanti, comprendendo che occorre un’altra cosa nuova. L’orizzonte di un progetto in grado di tenere insieme le identità riconoscendole e orientandole verso lo stesso cammino. Sino a che non sarà stata impostata, non ci sarà alternativa credibile. La lettura del libro di Andrea Colasio aiuta a riflettere anche su questo.