Chi fosse Peppino Impastato io, come molti, l’ho scoperto guardando “I Cento Passi”, il film di Marco Tullio Giordana che ne racconta, meravigliosamente, la storia straziante e coraggiosa. Avrò avuto vent’anni, la tessera della Sinistra Giovanile in tasca e l’illusione che avrei cambiato il mondo. Il film lo guardammo in tanti, con dolore e rabbia, in silenzio. Da quel giorno, lo proiettammo ogni 9 maggio, in ogni sezione (ancora si chiamavano sezioni!) o evento organizzato nella nostra città, lo facevamo per ricordare Peppino, per dire a tutti che anche secondo noi la mafia era una montagna di merda.
Per una siciliana della mia generazione, il 9 maggio è una data difficile da dimenticare: il dolore per la storia di Peppino resta un pugno sempre forte nello stomaco, la sua ribellione è uno schiaffo in pieno volto per ogni cittadino onesto, è la consapevolezza di vivere in una terra che sa essere madre e matrigna allo stesso tempo; come direbbe Ligabue una terra nella quale “c’è una linea sottile, tra star fermi e subire”, ed è lì che devi chiederti cosa vuoi fare, da che parte vuoi stare.
Peppino, oggi, manca da 41 anni, fu fatto a pezzi sui binari della ferrovia di Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, fu “appoggiato” sulle rotaie dopo essere stato intontito e picchiato selvaggiamente in un casotto vicino e poi fatto saltare in aria su una carica di tritolo. Trenta chili di resti dispersi per trecento metri, trenta chili di carne, pietre e pezzi di vita. Il suo corpo fu ritrovato lo stesso giorno in cui fu ritrovato quello senza vita dell’onorevole Aldo Moro: l’Italia del tempo, dilaniata dal terrorismo, non ebbe modo di accorgersi di lui, della sua morte, della sua vita, della sua storia.
La sua storia, però, prima che il film di Giordana, ce la raccontarono la tenacia di sua madre, Felicia, di suo fratello Giovanni e dei suoi amici e compagni di lotta, Salvo Vitale e Umberto Santino.
Era la storia di un giovane nato in una famiglia di mafia (il marito di sua zia, Don Cesare Manzella, era il capomafia di Cinisi e il padre, Luigi, era amico di Don Tano Badalamenti). La sua non era la storia di un eroe solitario, però: Peppino era un compagno, uno che aveva scelto di battersi per la giustizia sociale in barba al privilegio familiare, Peppino era uno che aveva scelto da che parte stare e che, da quella parte, ci era rimasto ad ogni costo, fino alla fine.
Fu lo Stato a non essere inizialmente dalla sua parte. I carabinieri, guidati da quello che sarebbe poi diventato il Generale Antonio Subranni (lo stesso che il 20 aprile 2018 fu condannato dalla Corte d’Assise di Palermo a 12 anni di reclusione nell’ambito del cosiddetto Processo Trattativa Stato-Mafia per intenderci), trattarono Peppino e i suoi amici come pericolosi sovversivi. La morte di Peppino fu archiviata come un suicidio o piuttosto un incidente di chi era maldestramente finito vittima dell‘attentato che lui stesso stava organizzando. Solo 23 anni dopo la sua morte, grazie anche al lavoro di uomini dello Stato come Rocco Chinnici – che ne abbracciò la storia come quella di un figlio – Peppino fu riconosciuto vittima della mafia e l’11 aprile del 2002 il boss Gaetano Badalamenti fu condannato per averne ordinato la morte.
Quarantun anni sembrano parlare di un tempo lontano, eppure le storie come quella di Peppino sono, ancora oggi, numerosissime, sono storie di ribellione al sistema familiare, storie di scelte coraggiose e, per fortuna, sempre meno solitarie. Basti pensare ad Antonio Piccirillo che, appena qualche giorno fa, durante “Disarmiamo Napoli”, la manifestazione organizzata contro la camorra ha avuto il coraggio di urlare al megafono che suo padre è un camorrista, ma che lui no, lui è una persona libera e che tutti i figli dei camorristi dovrebbero dissociarsi come lui dalle scelte dei loro padri. Perché l’amore è una cosa, ma la stima e il rispetto sono un’altra.
Che questa rivoluzione culturale è possibile ce lo dice il numero sempre più alto di giovani figli di ‘ndrangheta salvati dal Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, che da anni prende provvedimenti coraggiosi con cui sottrae i minori presenti nel circuito penale alla convivenza con la famiglia di origine (talvolta privandola addirittura della potestà genitoriale), e lo fa offrendo loro una possibilità che, fino a qualche tempo fa, sarebbe stato impossibile anche solo immaginare: la possibilità di scegliere, di fare una scelta di speranza, un atto di fiducia verso lo Stato. Perché lo Stato quando c’è, si vede.
Sono tutte storie, queste, che dimostrano che Peppino aveva ragione: spesso la mafia sta a cento passi da noi, e non è più solo la mafia delle coppole e delle lupare, è diventata un diffuso e tentacolare sistema di potere economico, una mentalità di naturale prevaricazione dei diritti dei cittadini e dei lavoratori, non è più un fenomeno emergenziale ma è, a tutti gli effetti, un fenomeno strutturale del nostro paese, ed è per questo che noi abbiamo il dovere di ricordare, di ribellarci, di camminare al fianco dei tanti Peppino, dei tanti Antonio Piccirillo che non devono essere dei simboli, delle bandiere da sventolare, ma un esempio, la testimonianza che un’altra strada è possibile.
Prima che sia troppo tardi, prima di non accorgerci più di niente.