Il dibattito nazionale ed europeo sul salario orario minimo per legge o contrattato ha evidenziato un nervo scoperto: la “rappresentatività sindacale” come prevista nell’articolo 39 della Costituzione, ma non ancora regolamentata.
Il punto di domanda è: come monitorare a quanti lavoratori quel determinato contratto si applica e stabilire la rappresentatività delle associazioni imprenditoriali e sindacali che lo hanno firmato?
La questione è infatti come combattere il “dumping contrattuale”, quel fenomeno per cui vengono sottoscritti da organizzazioni non rappresentative alcuni contratti, allo scopo di consentire alle aziende di applicare, formalmente in modo legittimo, condizioni salariali e di lavoro inferiori a quelle dei contratti firmati dalle sigle maggiori.
Francamente, gli 868 contratti di lavoro nazionali vigenti sono un numero inconcepibile, e solo una piccola parte sono quelli firmati dalle organizzazioni più rappresentative.
Il CNEL, presieduto da Tiziano Treu, era dato per spacciato se non “ridondante”. Ma oggi rispolvera una delle sue prerogative costituzionali, ovvero il potere di iniziativa legislativa, con un disegno di legge che di recente è stato presentato al Senato.
La proposta si compone di un solo articolo, con il quale si attribuisce al CNEL, in cooperazione con INPS, la definizione di un “codice unico di identificazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro nazionali”.
L’organismo non si limiterebbe più a prendere atto ed archiviare i contratti, ma a ciascuno di essi assegnerebbe un “codice alfanumerico”.
Questo codice andrebbe indicato nella comunicazione digitale dei dati retributivi e le informazioni utili al calcolo dei contributi che i datori di lavoro sono tenuti a fornire ogni mese all’INPS, attraverso un sistema di flusso denominato UNIEMENS.
In questo modo si potrebbero rilevare i contratti effettivamente applicati in ogni settore e individuare quelli più rappresentativi in base al numero dei lavoratori interessati.
Si tratta, a ben vedere, anche di una soluzione integrativa, o magari alternativa, al “salario minimo per legge” che tra qualche settimana arriverà anch’esso come proposta in Senato.
Insomma, come si propone il salario minimo per legge, è una strada per combattere il dumping contrattuale.
Il dibattito nazionale entrerà così nel vivo su una materia oramai indifferibile nell’era delle grandi trasformazioni in atto nel mondo del lavoro: nuovi lavori atipici non ancora riconducibili, salari da riconfigurare, contrattazione, rappresentatività sindacale ed imprenditoriali si tengono di fatto insieme.
Il tema complessivo va oltre i confini; l’Europa non può più sottrarsi alla disparità di costo del lavoro e dei salari che si registrano fra i vari Stati Membri.
La rappresentatività sindacale diventa anche “partecipazione strategica” nella gestione di impresa in Germania ed in Svezia, ad esempio. Ma resta vaga altrove; e il dumping salariale, congiuntamente alle delocalizzazioni d’impresa, continuano a minare la coesione sociale.
Il mercato è libero, la mobilità di persone e merci è garantita ma anche i salari devono poter “circolare” giusti e dignitosi.
Anche questo concorre ad aumentare quella sovranità della nostra Unione Europea, senza la quale il progetto comune non reggerà più.
Il passaggio da Comunità a Unione, felicemente introdotta dal Trattato di Lisbona nel dicembre 2009, si sta rilevando, purtroppo, soltanto un mero cambiamento nominale, con il rischio di ripiegarsi su se stessi ed alzare i calici ai sovranisti.