Ne abbiamo avuti di governi nel corso di questi decenni. Ve ne sono stati anche di provvisori, balneari, estivi, di transizione, elettorali, di minoranza, tecnici, di larghe intese, di coalizione, di decantazione e persino del premier. Ma ‘neutrali’, mai.
In fondo il Presidente Mattarella ha tratto le dovute conseguenze da consultazioni che non sono mai davvero decollate. Anzi, l’impressione è stata quella di una campagna elettorale che proseguiva a onta di urne ormai chiuse. Proporre la soluzione di un governo ‘neutrale rispetto alle forze politiche’ è stato come certificare un’assenza, un vuoto, una privazione. Ossia, l’impossibilità per le forze politiche di proporre, far nascere, ‘rappresentarsi’ in un esecutivo. Una mancanza di capacità rappresentativa che fa il paio con l’altra, relativa invece al corpo elettorale. Per la quale cresce la sfiducia, cresce l’astensione, e il Parlamento non è più specchio di alcunché.
Tutto è accaduto come se i partiti si trovassero infine isolati e separati non solo rispetto ai cittadini ma anche verso il vertice di governo, incapaci di dare rappresentanza a entrambi, nelle due direzioni, e di stringere forte la ‘catena’ della politica democratica. Come se la logica del maggioritario avesse infine trionfato, con un esecutivo e un popolo privi di intermediazione reciproca, ma in qualche modo comunicanti solo attraverso i media e i social. E un corpo politico, invece, del tutto irrelato. Carlo Verdone direbbe ‘avulso’. Privo di addentellati. Tanti pezzi ‘neutri’ che non fanno democrazia, e che non compongono, nemmeno conflittualmente!, il puzzle necessario a rendere presenti e funzionanti le istituzioni.
È quasi logico che, giunti a questo punto, il governo ‘neutrale’ lo sia per davvero. Almeno nel senso che non sia destinato a ricevere alcuna fiducia parlamentare, potendosi librare così in spazi autonomi. Sarebbe una specie di certificazione dello scollamento di cui si diceva. Raffigurerebbe lo spazio ‘sospeso’ di un corpo elettorale che non vota più se non con profondo disincanto e scetticismo; di un esecutivo che non riceve la fiducia e dunque non dialoga con il Parlamento e le forze che vi siedono; di un Parlamento a sua volta composto da forze politiche più intente a muoversi lungo linee orizzontali (calcoli e ragionamenti sulla loro sopravvivenza elettorale) che verticali (il gioco complesso e articolato della rappresentanza e della partecipazione organizzata a tutti i livelli).
Quanto può durare una democrazia così scombiccherata? Noi diciamo poco. Perché hai voglia a parlare della crisi di autorità o di autorevolezza: quella che si sta manifestando è, in realtà, una forte crisi della rappresentanza, della fiducia, delle relazioni reciproche e dell’articolazione democratica, in una forma del tutto inedita dal dopoguerra a oggi. E se è vero che la totale e reciproca irrelatezza di istituzioni, partiti, esecutivo è il segno di un apparato democratico che perde pezzi e colpi, non c’è autorità possibile (anche altissima) che possa surrogare un mondo di relazioni e rapporti che si sgretola storicamente per mancanza di coesione e di efficaci rimandi rappresentativi. Tutto ciò non viene dal nulla, ma è stato preparato da cinque anni condotti follemente e, prima ancora, da una Seconda Repubblica davvero malefica a questo riguardo.
L’attacco più profondo alla rappresentanza viene da lì, dal modo scientifico, consapevole, pianificato con cui i partiti sono stati disarticolati, sostituiti in toto da contenitori o coalizioni. Dalla pervicacia con cui le istituzioni sono state ridotte a carro su cui scorrazzano i ‘vincitori”. E poi, ancora, dal ‘premio’ maggioritario concesso al ‘vincente’ pur debole in termini di rappresentanza reale; dall’idea stessa di ‘vincere’ applicata alla politica in termini para-sportivi; dalla ‘forza’ politica ridotta a nulla, al più a strumento utilizzabile nei bracci di ferro interni alle coalizioni; dalla politica trasformata in ancella della comunicazione.
Un progetto di demolizione del delicato rapporto che c’è tra cittadini, partiti, istituzioni che è partito da lontano, a unico vantaggio di leader imbonitori, che vendono le loro politiche come tappeti, cavalcano le onde umorali dei clienti, spargono sfiducia come sabbia negli ingranaggi istituzionali, producono atti di pervicace autolesionismo, dipendono a doppio filo da sentimenti e atteggiamenti che salgono dal ‘basso’ e che si canalizzano soprattutto nei social. È finita l’era della classe politica capace di indicare una direzione e intraprenderla nel bene del Paese, assegnando alle elezioni il compito di giudicare quelle scelte mediante una verifica del consenso.
Le elezioni in un sistema proporzionale non servivano a ‘vincere’, ma ad assegnare ‘forza’ in base all’efficacia e alla bontà dell’azione politica sin lì condotta, al governo come all’opposizione. Oggi, in epoca di populismo, di maggioritario e di ceto politico smart, il consenso è solo una fidelizzazione dell’utente finale, la tessera di partito una card con i bonus, i congressi sono ‘convention’, la politica un’attività di marketing, i leader dei CEO, la classe dirigente degli azionisti in cerca di ottimi dividendi personali. Se tutto questo non significa che la democrazia è in pericolo, che la politica ha perduto ogni autonomia, che le basi della rappresentanza sono minate e che abbiamo affidato un Paese del G7 a degli incantatori di serpenti che conoscono (anche male) il loro mestiere, allora diteci voi: che cosa vorrebbe dire?