A seguito della “non vittoria” del 24-25 febbraio 2013, il Pd ha eletto entrambi i presidenti delle Camere; ha contribuito a decidere due presidenti della Repubblica; ha sostenuto tre presidenti del Consiglio dei ministri, com’era accaduto vent’anni prima, nella legislatura 1996-2001, a significare che i nodi strutturali della vicenda politica non sono stati sostanzialmente toccati; monopolizando non solo il governo, ma l’intero quadro istituzionale in un modo che ha pochi precedenti nella storia repubblicana. Al punto che non sono mancati osservatori che hanno insistito sul concetto del partito unico, dell’unico partito, ovvero dell’ultimo partito, ulteriore profezia destinata ad auto-avverarsi.
A scanso di equivoci: quello del 4 marzo è stato un collasso di tutto il campo di quello che abbiamo detto il centrosinistra, nelle sue diverse espressioni. Noi, Liberi e Uguali, compresi. Non abbiamo intercettato il malessere. Non è stata validata l’idea di un quarto polo. Come dice Ilvo Diamanti, quello che è emerso, un tripolarismo bipolarizzato. Si dice che quando si prende una botta il male si senta ancor più col passare del tempo. Vero. Solo che contemplare le rovine non serve. Bisogna rimboccarsi le maniche. Chi ha fatto la campagna elettorale, chi ci ha votato, ha bisogno di vedere che non abbiamo scherzato, che ci siamo, che siamo in grado di prenderci le nostre responsabilità. Prima di tutto dotandoci di un pensiero, di una comprensione di ciò che non ha funzionato. Ricostruendo, o meglio costruendo ex novo, le ragioni del progetto politico. Basta parlare di populismo quando, peraltro, la malapianta è da tempo entrata nello stesso campo del centrosinistra. Oggi più che mai c’è più roba fuori dalla politica che dentro. L’approccio meno utile è chiuderci nel recinto, la testa rivolta all’indietro. Non una sinistra dentro i propri confini; ma orientata a superare i propri limiti. Serviva questo. Continua a servire. Non è un lavoro semplice. Ma se fossimo stati alla ricerca di cose semplici, avremmo fatto tutti, credo, fin dall’inizio di questa avventura, scelte diverse.
Il M5s non è la Cdu tedesca. Anzi, per certi versi, sono come il giorno e la notte. Dal pedigree al profilo politico e di governo. E tuttavia siamo in presenza, da un lato, di una radicale differenza, dall’altro di una paradossale analogia. La differenza è che la Cdu esprime, nel sistema politico tedesco, un ruolo di architrave, di partito-sistema. Il M5s, ovviamente, no. Non ne è in grado, né soggettivamente, né oggettivamente. Il M5s non è centrale, né dal punto di vista della geografia politica, né dal punto di vista del sistema politico-istituzionale. Quindi la strana analogia: sia la Cdu sia il M5s rappresentano la prima formazione politica uscita dal voto, in Germania, lo scorso 24 settembre, in Italia, il 4 marzo. Non vi sono esiti prestabiliti. E il ricorso al voto anticipato è un’ipotesi da non escludere, ma tale da comportare, al contempo, un effetto-deterrenza. Un governo comunque bisogna farlo, anche per andare a nuove elezioni. Non si è mai visto, almeno sin qui, un esecutivo, nella circostanza quello Gentiloni, in grado di attraversare tre legislature.
Forse è il caso di ricordare com’è andata in Germania. Cdu e Spd, in coerenza con i programmi presentati in campagna elettorale, si sono poste agli antipodi, per quanto uscissero entrambe dalla condivisione, concorde e discorde, della Große Koalition. La Cdu dapprima ha tentato la cosiddetta soluzione Giamaica, dai colori della bandiera di quel Paese, con Liberali e Verdi. Senonché i primi, di fronte al successo di Alternativa per la Germania, la formazione xenofoba e euroscettica che, per la prima volta nella vita delle Repubblica Federale, si è posta a destra della Cdu con il 13%, hanno pensato di scommettere sul voto anticipato, rimanendo fuori dal governo e facendo saltare l’intesa con Cdu e Verdi. E’ stato così che il partito sconfitto dal voto del 24 settembre, l’Spd, il più antico nel panorama europeo, obtorto collo, è stato richiamato in causa, dalla politica, oltre che dalle circostanze. Posto di fronte a questo bivio: o tornare a votare, favorendo l’instabilità, autentico orrore per la mentalità tedesca, dando spazio a una destra non solo data in crescita ma, in tal modo, aiutata a crescere, o affidarsi a una riflessione.
I risultati della riflessione sono stati nell’ordine quattro. Primo: l’Spd si è ritrovata, inopinatamente, in una posizione se non di forza, quanto meno di recuperata dignità, nel pretendere una linea più equilibrata, prossima ai temi, a lei cari, di un rafforzamento dello Stato sociale. Secondo: è stato indetto un referendum che, proprio lo scorso 4 marzo, mentre si votava in Italia, ha visto prevalere il consenso per un nuovo governo Groko al 66%. Terzo: Martin Schulz, già presidente del Parlamento europeo, nonostante fosse stato eletto segretario dell’Spd con un’amplissima maggioranza, ha fatto un passo indietro sia dal partito sia dal governo, rinunciando al ruolo di Ministro degli Esteri, con contestuale rinuncia del vicecancelliare uscente Sigmar Gabriel. Quattro: 177 pagine di accordo per il governo, messe nero su bianco. Con una precisazione: der Koalitionsvertrag che unisce Cdu, Csu e Spd, sta a significare più accordo che contratto. Insomma: politica, condivisibile o meno, in relazione a questioni di merito, tra scelte e decisioni, prese con evidenza pubblica, alla luce del sole.
Ora, ripeto, è del tutto evidente che i contesti sono radicalmente diversi, anche se entrambi evidenziano una fatica dei sistemi democratici, non solo quello tedesco e italiano, a intrecciare, in questa fase, rappresentanza e responsabilità di governo. Il M5s, in assenza di una maggioranza, ed essendo il primo partito, può approfondire il tentativo di un’alleanza con la destra salviniana (come provò a fare la Cdu con i Liberali) ma trovando su questa strada una specificità tutta italiana come quella berlusconiana. Ma poi l’ipotesi di un governo ultra-trumpista, non trattandosi di un destino ineluttabile, è davvero augurabile per l’Italia, quando potrebbero esserci altre soluzioni? In questa direzione, prima ancora degli appelli alla responsabilità, piuttosto che alla chiusura pregiudiziale, potrebbe spingere la logica proporzionale. Non ci sono vincitori delle elezioni, nel senso di una conseguenza diretta, di tipo maggioritario, sul governo. Ci sono forze che hanno avuto più voti. Ovviamente con un chiarimento decisivo. Chi, ai sensi del Rosatellum, si è presentato come “capo” di una lista, non può far valere automatismi per la guida del governo. Proprio perché lo schema è neoproporzionale, è consigliabile una figura terza. Non necessariamente tecnica, anche politica, ma altra. Qualora si verificasse uno scenario del genere, al momento improbabile, e per certi versi inverosimile, ma, in prospettiva, non impossibile, LeU, che, grazie al voto di un milione e centomila persone, oggi legittimamente siede in Parlamento, potrebbe valutare nel merito, ponendo in primo piano il servizio da rendere al Paese, le condizioni per una discontinuità, sia sul piano politico, sia su quello programmatico, relativamente a questioni sulle quali LeU ha già tempestivamente presentato, in apertura dei lavori del nuovo Parlamento, i suoi primi disegni di legge.