Abbiamo letto con molto interesse l’intervento di Lucrezia Ricchiuti su questo Magazine. Molto contenuto dell’intervento è condivisibile. C’è dentro tutto ciò che aveva spinto tanti di noi a lasciare per tempo il Pd, dal jobs act alle politiche fiscali. Ma c’è una ‘cornice’, diciamo così, una tesi di fondo che non condividiamo affatto: l’idea che si sia comunicato male, e che il punto sia principalmente quello.
Si badi, non sosteniamo l’opposto, ossia che si sia comunicato bene. Non neghiamo eventuali, possibili ‘errori’ di conduzione. Ma nemmeno siamo disposti a pensare che tutto dipenda dall’uso che si fa (o non si fa) dell’apparato comunicativo, e dunque che le proposte ‘vincano’ solo perché le si è comunicate, infine, nel modo dovuto, al di là della loro effettiva sostanza o articolazione originaria. Noi ribalteremo il ragionamento: sono le ‘buone’ proposte, in realtà, a ‘bucare’ i media ben più delle altre. Per ‘buone’ intendo: tempestive, adeguate, efficaci, rappresentative, coerenti, semplici. Se fossi un fisico aggiungerei persino ‘eleganti’. Non esiste, dunque, un contenuto purchessia e poi una forma comunicativa neutra. Non c’è un dato grezzo e poi un canale della comunicazione distaccato da esso, oggettivo, tecnicamente imparziale, in cui ‘sospingerlo’ a dovere. La comunicazione non è ‘usabile’. La comunicazione reagisce ai contenuti, così come la tecnica non sta lì ferma in attesa che l’umanità se ne serva. Dobbiamo partire dall’idea che non abbiamo di fronte ‘strumenti’ purchessia, ma apparati che chiedono il rispetto di una logica e sono pronti a interagire con la nostra vita, politica in primo luogo, purché l’interazione sia adeguata. Dire che c’è un difetto di comunicazione è come dire che si trattava solo di ‘comprimere’ bene i nostri ottimi contenuti in un canale che attendeva solo le nostre proposte, in qualunque ‘forma’ esse si presentassero. Ma non è così.
Facciamo un esempio. In un solo caso abbiamo davvero bucato i media. Ed è stato con la proposta di Università gratuita: una proposta inedita, dirompente, semplice da capire, adeguata alle necessità delle famiglie più disagiate e dell’intera nazione, che ha bisogno di un livello più elevato di laureati e di alta formazione. La proposta sulla gratuità diceva tutte queste cose semplicemente, in modo quasi disarmante. Tant’è vero che se n’è parlato molto, si è aperta una discussione, i nostri avversari politici si sono sentiti in obbligo di ribattere sui media e sui social. Ecco un caso dove la potenza e l’adeguatezza della proposta hanno davvero attivato i media, che hanno reagito ai contenuti e li hanno contestualmente rielaborati (la gratuità è caduta a torto nel gran calderone dei tagli delle tasse, ma è stata comunque ripresa e rilanciata). I contenuti non basta che siano ‘giusti’, serve che siano ben formulati, siano presentati dapprincipio in modo ‘appetibile’, siano eleganti e potenti e semplici nella loro enunciazione, abbiano una contestualità e colgano l’attimo. Ma questa è responsabilità di chi fa politica, non dei comunicatori. Se proprio si vuole porre interesse al tema della comunicazione, allora lo si deve fare in modo accorto, avveduto, ossia rispettando le leggi e la specificità di questi apparati mediali, del loro contesto, non immaginandoli come canali neutri di servizio pronti a digerire tutto (e senza contraccolpi), persino termini come ‘aliquote’ o ‘scaglioni di reddito’. L’idea di tagliare le tasse tout court, per quanto odiosa e censurabile, rende più facile il lavoro di chi deve comunicare. Non si tratta di assumere le proposte del centrodestra, ovviamente, ma di tenerci le nostre, formulandole però con più semplicità, più linearità, più tempestività, di modo che sia anche più facile comunicarle agli elettori e ai cittadini. Perché la semplicità è un onere generale, non solo dei comunicatori. C’è stato anche un secondo caso, tuttavia, in cui una proposta ha funzionato, ed è stato con lo Ius soli. Il tema era semplice, quasi lapidario: chi nasce in Italia è italiano. Bersani, fotografato con la bambina di colore in braccio, fu un’icona della semplicità e della efficacia comunicativa del messaggio. Perché tutto deve apparire naturale, quasi ovvio.
Quando si fa comunicazione-politica non serve esagerare nei registri analitici. Bisogna ‘spolpare’ l’oggetto già prima che cada sul tavolo di un copywriter o di un addetto ai social. La sinistra ha pagato anche una certa confusione di proposta politica, l’articolazione eccessiva dei deliberati, l’analiticità preponderante, l’oscillazione delle proposte, nonché la debole tempestività e il debole impatto (“troppo tardi, troppo poco”), prima ancora che l’inefficacia ultima della espressione comunicativa.
Un programma non si compone di tante pagine fitte di tante cose e portatrici di percorsi politici frastagliati, ma di punti semplici, selezionati, trainanti. L’elettorato, come i consumatori, ricorda poche cose alla volta. Di una automobile, tanto per dire, si fa pubblicità solo su un unico aspetto (la potenza del motore, o l’eleganza degli interni, oppure il cruscotto di radica, come fu in una celebre case history della Volvo) non ci si dilunga in troppi dettagli. Quando l’automobile è ben fatta, il lavoro di chi costruisce lo spot è più facile, la riuscita più garantita, così le vendite. Questa semplicità è, in primo luogo, compito del ‘politico’, di chi tiene il bastone ed è capofila del progetto, non del ‘guru’ o dei ragazzi al desk.
Se fosse il contrario, vorrebbe dire che la politica è divenuta una sciocca ancella della comunicazione, che è poi quel che accade di norma. Siccome deve essere la comunicazione a essere ancella della politica, tocca a quest’ultima scegliere e ‘affusolare’ la polpa che il comunicatore deve solo rielaborare e perciò rivestire di una bella buccia, perseguendo con propri mezzi una strada già indirizzata. La comunicazione è la prosecuzione della politica con altri mezzi, difatti, non un’attività autonoma, tecnica, neutrale, aggiuntiva, e tuttavia, paradossalmente!, ritenuta responsabile della riuscita finale della politica stessa. Delle ‘vittorie’ e delle ‘sconfitte’. Per questo gli indirizzi li deve dare quest’ultima, ma debbono essere indirizzi già ‘lavorati’, con ciò rispettosi della forma specifica dell’atto comunicativo e delle sue logiche. Se questo avviene, allora si bucano davvero i media, sennò no.
Se proprio si sceglie la strada di dare peso alla comunicazione, di indicarla come uno snodo essenziale, allora se ne debbono rispettare i meccanismi, uscendo dall’ingenuità di pensare che sui media possa passare di tutto, ma proprio tutto, anche una politica dalla forma sin troppo articolata, poco originale, eccessivamente analitica nella formulazione e appena sgrossata, per quanto si stia parlando (ne conveniamo) di politiche giuste e doverose. Se proprio vogliamo la comunicazione-politica, se il punto è proprio questo, allora si deve essere coerenti con questo dettato, e ‘pensare’ da comunicatori anche quando si è politici. Non riversare sul tavolo dei ragazzi che lavorano sui social le proprie contraddizioni, le proprie tortuosità, nonché la ‘pesantezza’ di una formulazione politica che denota un eccesso di ‘fatica’ sintetica e qualche errore di troppo.
Oltre venti anni fa, con Walter Tocci all’Assessorato alla Mobilità di Roma, si discuteva spesso di cosa significasse l’efficacia comunicativa per un ente pubblico, concludendo che il compito al riguardo non spettava solo all’Ufficio Comunicazione del Comune, ma all’intero ‘apparato’ amministrativo e ancor prima alla Giunta. Per esemplificare, un’ordinanza di traffico scritta in gergo, troppo tecnicistica, spesso oscura, non era una buona premessa per chi doveva stilare il comunicato stampa o scrivere un pezzo per il sito, magari presentando sotto buoni riguardi il deliberato. L’intento di semplificare doveva partire da prima, sin dagli uffici tecnici del Comune. Chiarezza ed eleganza dovevano essere presenti nel corpo della stessa deliberazione, dello stesso atto amministrativo, e ancor di più nelle scelte politiche. Non doveva esserci contraddittorietà negli indirizzi, oppure una loro eccessiva articolazione o analiticità. Ecco in che senso la logica della comunicazione si ripercuote sui contenuti politici, nel senso che impone uno stile e una adeguatezza specifici.
Che la proposta debba aspirare all’UNO, come dice Ricchiuti, non dipende solo dai comunicatori, forse non dipende affatto da loro, ma da chi siede in Parlamento, oppure negli organi di governo dei partiti. Dipende, in assenza di un corpo del partito, dai dirigenti. L’unità è questione eminentemente politica, non comunicativa. Sarebbe strano il contrario. Ultimo esempio. Il 4 dicembre 2016 abbiamo difeso nelle urne del referendum la Costituzione più bella del mondo. Era facile farlo. La Costituzione italiana è chiara ed elegante nelle formulazioni. È molto comunicativa. Ci vuol poco a parlarne, a esporla, a esprimerla in una battaglia politica, a farne una bandiera. A differenza del progetto di riforma renziano. Ricordate la nuova formulazione dell’articolo 70? Beh, ci abbiamo riso sopra in milioni di persone. Ancora ci chiediamo che cosa volesse dire quell’articolo, tanto era tortuoso, pesante, un vero coacervo di cose sparse. Un obbrobrio. Potevano vincere il referendum, posta anche la bellezza e la forza del testo in vigore? No, proprio no.