Prima del 4 marzo c’è stato il 4 dicembre. Quella data l’abbiamo in qualche modo rimossa, evocata qualche volta nei comizi, ma archiviata troppo in fretta. Senza offrire a noi stessi, prima ancora che all’opinione pubblica, un giudizio completo e veritiero sull’articolazione del voto referendario. Su cosa c’era dentro quel No. Perché dico questo? Nel voto contro la riforma renziana non c’era solo un monito a difesa della Costituzione di Calamandrei, sull’autonomia del Parlamento, sul ripudio della democrazia maggioritaria del capo. Nell’epoca della semplificazione massima, della volontà di mandare a carte quarantotto i partiti, dell’uomo solo al comando, delle istituzioni troppo costose il ddl Boschi avrebbe dovuto sfondare. E le nostre argomentazioni, quelle del costituzionalismo democratico, sarebbero finite inevitabilmente nel campo della conservazione, un pezzo di storia nobile da cancellare in nome di una presunta nuova Repubblica.
E invece dentro quel 4 marzo c’era un prevalente, che noi abbiamo in qualche modo accantonato, il timbro di Trump, della Brexit, del sentimento che oggi attraversa intere comunità occidentali, lo schiaffo al sistema e l’uso del voto come uno strumento di decapitazione piuttosto che di cambiamento. C’erano lì dentro i prodromi della vittoria dei Cinque stelle e della Lega, non quelli di una sinistra rigenerata. Non sono pentito di quella battaglia, l’ho fatta con l’anima, ma l’eterogenesi dei fini ha prodotto lo sfondamento a destra, per essere onesti intellettualmente. Anche perché la ricetta proposta, dopo il primo grande show down del renzismo, è stata oggettivamente al di sotto della gravità di quel messaggio.
Aver immaginato che bastasse abbassare qualche decibel, sostituire al maleducato Renzi il beneducato Gentiloni, è stata una pia illusione. Una cura omeopatica. Non era una questione di educazione, dunque, ma di politiche. Gentiloni non ha aperto una nuova fase nel Pd e nel paese, ha semplicemente contribuito a rallentare l’esplosione del campo progressista, si è mosso in piena continuità su economia e lavoro. Sotto quei detriti siamo finiti anche noi, percepiti e trattati come un pezzo di quel sistema da abbattere, una variante.
Ovviamente, rimuovere il contesto internazionale sarebbe sbagliato e autoassolutorio. Non tutto è nelle nostre piccole mani. È il voto più “occidentale”, quello che ha caratterizzato il 4 marzo, che il nostro paese abbia mai conosciuto dalla caduta del muro di Berlino ad oggi. Dico occidentale perché sta dentro il terremoto che ha cambiato il volto di intere democrazie cosiddette mature. Trump che recupera il voto dei “forgotten men”, la Gran Bretagna che saluta l’Europa e rinverdisce i fasti dell’isolamento, Macron che sconvolge il paesaggio politico della Francia della V Repubblica inaugurando un nuovo bipolarismo con Le Pen, la Germania della Grande Coalizione che vede crescere l’estrema destra, la Spagna sull’orlo della secessione catalana, le Repubbliche dell’est beneficiarie dell’allargamento che alzano muri e che affondano nell’autoritarismo e nella corruzione. Questo il quadro dell’occidente, la crisi della democrazia rappresentativa, la fine delle forze politiche tradizionali, il ripiegamento dentro il fortino nazionale, l’appello alle classi medie impoverite.
Direi, senza apparire troppo enfatico, persino la fine dell’illuminismo. Altrimenti non saprei come chiamare questo impasto fetido di pregiudizi, oscurantismi, complottismi che viaggiano alla velocità della luce attraverso il web e che sembrano preludere a un clima di guerra. E come chiamare l’episodio incredibile di Bardonecchia dove la gendarmerie francese lascia morire al freddo e al gelo una sans papier incinta e molto malata? La fine dell’illuminismo apre la strada a un cinismo che cancella la pietas. Il voto italiano sembra uno scacco al cosmopolitismo che era stata la bussola delle élites democratiche che hanno costruito il processo europeo e accompagnato la crescita della globalizzazione fino a subire la sua eclissi. E sembra persino uno scacco al nuovo corso di Papa Francesco, il pontefice delle domande giuste, ma percepito come asincronico rispetto al tempo che vive.
Dentro questo quadro la vittoria dei Cinque stelle e della Lega era largamente prevedibile. Socialmente e politicamente. La sinistra politica, tanto nella versione radicale quanto in quella riformista, viene scarnificata elettoralmente perché, non a torto, identificata pienamente con i limiti e gli errori del processo europeo. Essa è cosmopolita, per la società aperta, per il rispetto del vincolo esterno. Il Pd paga il prezzo pesante che la stragrande maggioranza delle socialdemocrazie ha pagato, essere percepito come una protesi di un establishment sedotto dal libero commercio, infognato nella retorica dei sacrifici, poco autonomo rispetto ai poteri della finanza e del mercato. Insomma, adotta l’agenda dell’avversario con qualche maquillage a favore dei poveri. La sinistra radicale, incapace di andare alla radice della crisi, della trasformazione del e nel lavoro, è aggrappata alle ricette – giuste e sacrosante, per carità – del keynesismo novecentesco senza però fare i conti con la trasformazione tecnologica che ha accompagnato un pezzo di chi lavora alla porta e con la crisi dello stato nazionale. Siamo apparsi vecchi sulla questione sociale, afoni sulla questione democratica, poco incisivi sulla questione morale, nonostante fosse il terreno più congeniale, anche per il profilo biografico della nostra leadership.
Penso al turning point rappresentato dalla vicenda De Luca, in Campania ma non solo. Quanto ha inciso? Tanto. Quando vedi quelle immagini, quella spregiudicatezza, quella idea di trasmissione del potere dinastico cosa puoi fare, se sei un outsider? Dare un calcio, far saltare il tavolo, rovesciare il sistema. D’altra parte quei panni del potere senza sanzione, senza senso di colpa, senza limite erano vestiti venticinque anni fa dai nostri avversari, dal sistema dei Gava e dei Pomicino. E se penso alla mia storia, al mio percorso di militanza giovanile: Tangentopoli e la lotta contro le mafie che ammazzavano i magistrati furono un bivio, appunto un turning point. Un ragazzo di 14 anni dove va se odia la corruzione, vuole un mondo più giusto, non sopporta il nepotismo e il clientelismo oggi? Io andavo dai comunisti in trasformazione che avevano retto contro il sistema degli anni 80 e che avevano posto la questione morale. Nel mio paese del Mezzogiorno, non avevano mai governato, erano usciti immuni da arresti e malversazioni. Volevano cambiare, volevo cambiare. Oggi un ragazzo di 14 anni, come me allora, dove va? Chi vota? Quale è lo strumento per far saltare tutto?
Noi non eravamo quello strumento, anche se eravamo diversi. Perché purtroppo la diversità senza la massa critica diventa ascetismo o, peggio ancora, moralismo da benpensanti. E forse anche perché ci sfuggiva che in parte la parola centrosinistra significava ormai per milioni di cittadini al sud sempre meno buongoverno e sempre più privilegio.
Dunque il voto ci consegna una ribellione. Ma è una ribellione del tutto inedita, senza un’ora di sciopero e senza una piazza occupata da una manifestazione. E’ una ribellione che passa forse attraverso altri canali, più fluidi, più emozionali, più individualizzati. Una rivoluzione passiva che avviene senza una partecipazione classica, di massa, corale. Si staglia attraverso la solitudine del web e corre sul filo di una generazione esclusa da tutto. Un nuovo 68? Per l’entità anagrafica della ribellione all’apparenza sì. Ma il 68 passava per una generazione che stava meglio dei padri, voleva diritti pieni, che non conosceva la parola crisi e che consumava la propria ribellione nella politicizzazione dello spazio sociale. Oggi lo spazio sociale è tutt’altro che politicizzato, è una piazza virtuale che urla e chiede spazio, ma non si incontra, non discute, per certi aspetti non partecipa. Delega.
Come sul reddito di cittadinanza. Una misura universale, discutibile o meno, che, come sembra profetizzare Grillo, rappresenta una nuova palingenesi alla stregua del vecchio “proletari di tutto il mondo unitevi”. Ma i nuovi proletari non si vedono, non si annusano, non si conoscono. Al massimo si riconoscono. E votano. Poi avanti di nuovo nel privato, nella disperazione della precarietà, nello stare parcheggiati a casa dei genitori fino a quaranta anni, nel consumare centinaia e centinaia di risme di carta per un curriculum sempre più vuoto. Ecco il punto per noi è questo. Lo spazio sociale c’è e va politicizzato. Ed è la funzione storica di una qualsiasi forma di vita a sinistra. Certo, la contingenza politica ci dice di organizzare una forza politica, un partito. Non dobbiamo tirarci indietro. Ma la sfida è lì, dove il conflitto sotto la cenere ci chiama a svolgere una battaglia delle idee di lungo periodo. Fare un partito per fare solo un partito non serve. Fare un partito per fare società serve tantissimo. E costa tempo, sudore, fatica. E non è nemmeno tanto di moda. Se vogliamo riprendere a contare qualcosa, io penso che si debba partire da qui.