Questo è un contributo a Ricomincio da tre? Diciamo che è un punto, insieme valoriale e programmatico, per una sinistra costituzionale, nel tempo del prevalere, a seguito del voto del 4 marzo, di forze, per motivi diversi, insofferenti al quadro costituzionale.
Ci si potrebbe chiedere, intanto, che cosa renda l’idea dello Stato adeguata a una società democratica. Certo, come si ama ripetere, la tripartizione dei poteri, la Balance of Powers. La sovranità popolare, sia nella versione elettivo-rappresentativa, sia in quella diretta, già prevista dai padri costituenti con un istituto referendario che, nei passaggi topici della Repubblica, non ha mancato di far sentire la sua voce, sino al 4 dicembre 2016. Ma oggi in questione è soprattutto lo Stato sociale, senza il quale lo stesso Stato di diritto risulta forma, non sostanza. E’ qui, nell’idea di Stato sociale, una sfida rispetto alla quale affinare gli strumenti di analisi e di proposta, promuovendo interventi contro i nodi strutturali delle diseguaglianze, con politiche di protezione e una scelta radicale a favore della parte più colpita, per i diritti universalistici, specialmente a favore di beni comuni quali salute e istruzione.
Aggiungo due cose. Oggi il tema dell’identità è centrale, non in termini regressivi, ma come risposta a una globalizzazione che porta anche nuove ingiustizie. Un sistema democratico dovrebbe fondarsi non solo sul principio della maggioranza, ma anche sul ruolo essenziale delle minoranze. Dai diritti civili al pluralismo culturale, dalla società multietnica alla cultura della diversa abilità, alcune questioni nevralgiche della civiltà in evoluzione sono inscritte nel concetto stesso di minoranza. Era vero nella legislatura 2013-2018. Lo è altrettanto, se non più, in quella appena iniziata (dagli sviluppi incerti).
Stato costituzionale significa regole. Per questo il garantismo ne è il vero rispetto: quello che non pretende di decidere al di fuori delle sedi appropriate, affidandosi precisamente a chi ha titolo per farlo. Il giustizialismo, l’esatto contrario; siccome pretende di sentenziare in modo difforme da ciò che la legge prescrive. Prima o altrove. Da un lato, la buona politica ha bisogno di una soglia alta di etica pubblica. Dall’altro quest’ultima deve fondarsi sulle autonome prerogative della politica. La questione morale è sempre anche una questione politica.
Non bisogna sottovalutare l’attesa di giustizia, perché sia soddisfatta, a partire dalla certezza dalla pena. Come spiegava il buon Cesare Beccaria (nel suo gran libro Dei delitti e delle pene): “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità”. Ciò significa inscrivere quell’attesa in un quadro di legalità che ha a che vedere con l’ordinamento e i suoi principi, compresa la funzione rieducativa della pena.
Può essere interessante dare una seppur rapida scorsa a quel che, sul tema, hanno sostenuto alcuni pensatori. Baruch Spinoza criticava coloro che concepiscono “gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero”. David Hume avrebbe voluto togliere alla morale l’“abito da lutto”, del quale è stata rivestita, per mostrarla “gentile, umana, benefica, affabile; anzi, in certi momenti, giocosa, allegra, gaia”.
Nota la sensibilità di Kant verso ogni forma di arroganza della ragione, quella che intende oltrepassare i limiti della conoscenza; così come la diffidenza verso il fanatismo morale, quello che consiste nell’idea, velleitaria, di superare i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù la presunzione della santità, il possesso della perfezione. Nella sua idea di ragione Hegel contrappone al fanatismo la virtù, ossia un agire in grado di procedere oltre l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive – “la virtù e il corso del mondo”.
Infine, secondo Søren Kierkegaard, il fanatismo moralistico non solo è il contrario della morale, è anche il più terribile dei peccati. Fondamentale credere nella virtù; consapevoli che essa è il contrario del purismo astratto. Rispondendo alla domanda postagli da Wlodek Goldkorn: “Quindi il purismo è una forma di nichilismo?”, monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha risposto così: “Una forma pericolosissima del nichilismo. Perché costringe alla menzogna” (sull’Espresso di domenica 21 gennaio 2018).
Lotta ai motivi strutturali delle diseguaglianze e promozione di una più alta etica pubblica, nel rispetto delle regole e delle garanzie, Stato di diritto e Stato sociale, per rafforzare le politiche di protezione, costituiscono due ispirazioni di fondo per una rinnovata sinistra costituzionale in grado di affrontare il cammino, tutt’altro che semplice, che ha davanti a sé.