‘Che fare?’ è la domanda delle domande, quella che riemerge quando serve una riflessione speciale, quando non basta l’ordinaria amministrazione, quando la strada rassicurante del ‘già detto’ è sbarrata e magari i bisonti, e non le mucche, scorrazzano per casa. Prima di rispondere bisogna riepilogare un po’, e riflettere sul cammino percorso.
Un cammino lungo, tormentato, che ha uno snodo essenziale, il sequestro Moro, e che poi procede verso la fine dei grandi partiti, Tangentopoli e i picconatori, il trapasso della Prima Repubblica nella Seconda, la scelta scellerata delle leggi maggioritarie, e poi Berlusconi, il loft veltroniano, i 101 e la rottamazione renziana. Sino alla botta elettorale di questi giorni, che testimonia peraltro la crisi dell’idea di sinistra nella coscienza politica del Paese. Qual è il filo rosso che sembra legare tutto, conferendo un senso a cose apparentemente così diverse? Questo: la mutazione politica, culturale e antropologica che ha sconvolto la nostra cultura nazionale, e di riflesso la nostra democrazia, consegnandoci allo spettacolo di questi giorni come ultimo esito annunciato.
Quella che era una Repubblica parlamentare, con il suo sistema dei partiti, le sue istituzioni rappresentative, la sua partecipazione organizzata, i suoi corpi intermedi e la sua classe dirigente frutto di un intenso lavoro di formazione e di crescita, è divenuta altro. La crisi della rappresentanza politica è intensa a tal punto che tutto appare irrelato, occasionale, slegato. La società politica non riflette più le pieghe della società, non ne rappresenta più con ampiezza i territori sociali e culturali, in special modo quelli che risultano marginalizzati, sempre più periferici, e pronti a fornire risposte ostili, quasi in cagnesco all’attuale offerta politica. Pronti persino a schierarsi con la destra. La disarticolazione viene da lontano, come abbiamo visto. È partita da Moro, dal progetto di distruggere la via che si stava tentando di percorrere, di unità popolare e costituzionale, di democrazia rappresentativa, di pieno riconoscimento delle forze in campo, nel tentativo di rafforzare il sistema dei partiti, non distruggerlo, anzi. Le picconate e le rottamazioni sono poi andate a parare lì, in quello stesso punto di crisi, laddove poggiava il consenso dei partiti: le grida antipartitocratiche puntavano a disarticolare quel che restava della rappresentanza, della ‘potenza’ del Parlamento e della partecipazione organizzata entro i corpi intermedi. Si puntava a far crollare i ponti, a rompere il tessuto di mediazioni che garantivano un conflitto regolato, la coesione e la tenuta articolata del Paese. Che diveniva un campo di calcio, alla mercé di ‘squadre’ capitanate da nuovi e ambiziosissimi outsider. Politici che parlavano il gergo dell’antipolitica. Una contraddizione che il sistema alla fine ha pagato.
C’è la fine dei partiti, dunque, a legare queste vicende, c’è la loro cancellazione, la loro diluizione entro società civili mediatizzate, coalizioni forzose, rassemblement sempre più anonimi, incolori, personalizzati, sempre più votati a ‘vincere’ e a insediare nuove classi dirigenti, piuttosto che a progettare una visione, una trasformazione e un cambiamento di lunga gittata del Paese. La democrazia rappresentativa era l’ostacolo principale alla venuta dei tempi nuovi, quelli del marketing politico, del leaderismo sfacciato, dei contenitori vuoti di idee e identità, del premio maggioritario, del personalismo, del presunto ‘nuovo’ che avanza, delle palingenesi istantanee, della ricerca di ‘vie di fatto’, delle riforme costituzionali all’amatriciana, dell’inesperienza elevata a valore. Alla sfiducia crescente verso la politica si è opposto un moto eguale e concorde, che ha potenziato quella sfiducia, che ha amplificato la crisi della rappresentanza e ha puntato tutto sull’esecutivo, sul mandato diretto, sul Capitano di breve corso, sul ‘premio’. Le leggi maggioritarie sono state il suggello finale di un ‘movimento’ che preludeva allo sganciamento della politica mediale dalla coscienza viva del Paese, una politica ormai ridotta a mero narcisismo, ad ansia di vittoria, ad agonismo spicciolo, a capitani narcisi dediti alle regole del marketing. L’idea di ‘fare’ tecnico immediato prendeva le distanze dall’articolazione politica e da quella culturale.
Il progetto di Moro e Berlinguer era un’altra cosa. L’esatto opposto. Ossia, la coesione nazionale, l’unità popolare e costituzionale, la regolazione del conflitto, che non voleva dire la sua cancellazione, ma una sua maggiore efficacia sul piano delle politiche pubbliche. Contro quel progetto si sono scatenati in tanti. Di fatto, esso intendeva impedire avventure, faceva da scudo alle classi popolari, articolava la democrazia, la completava, ne potenziava la rappresentatività, avvicinava alle istituzioni invece di indicarle come colpevoli di tutto, e perciò da ‘disintermediare’. L’antipolitica, il populismo inteso come cortocircuito (mediatico) Capo-Popolo, hanno origini lontane e sono gli strumenti prescelti per agevolare una ridistribuzione delle risorse a vantaggio dei più ricchi, una crescita conseguente delle diseguaglianze, una compressione del welfare, un depotenziamento della democrazia e della partecipazione per attenuare la vigilanza e il controllo sugli atti di governo. La crisi della politica ridislocava il potere politico. Era come prepararsi ad accogliere il ‘maroso’ neoliberale che la globalizzazione portava a ondate successive, adattandoci pian piano ai tempi nuovi. Al di sotto della democrazia mediale, decisionista, maggioritaria covava un ribaltamento dei rapporti di forza sociali, che la democrazia dei partiti e la cultura della mediazione tendevano invece a riequilibrare a vantaggio dei molti, non dei pochi.
Che fare? La risposta è già nella domanda e nella sommaria analisi sin qui svolta. Si tratta di inaugurare una Terza Repubblica molto somigliante alla Prima. Nessuna nostalgia e nessuna distopia. Si dovrà rispondere ai nuovi bisogni, alle domande attuali, alle contraddizioni del presente, opponendoci al filo rosso che si è dipanato nel corso della Seconda Repubblica, ma nato ancor prima. Come? Lavorando a una crescita della fiducia dei cittadini verso le istituzioni, ripristinando il principio di rappresentanza, promuovendo una legge di tipo proporzionale, serrando il più possibile il baratro tra italiani e Parlamento. Il Parlamento, le istituzioni rappresentative devono riavvicinarsi al popolo, e debbono farlo contro i principi maggioritari, contro l’idea che l’aula non debba ‘rispecchiare’ nei modi dovuti il Paese in nome di una vacua ‘governabilità’. Le alleanze politiche, parlamentari, debbono tornare a essere quel che erano, ossia dialogo democratico alla luce del sole, in aula, nel Paese, per ricostruire un senso di appartenenza e coesione politica che oggi è stato deturpato dallo spirito maggioritario e “coalizionale” della Seconda Repubblica, che svuota il Parlamento ma riempie le stanze segrete, dove si fanno invece patti e accordicchi. I partiti potranno rinascere, almeno in termini di identità e cultura politica, solo se cambierà lo scenario istituzionale, solo se la democrazia rappresentativa e la partecipazione organizzata diverranno nuovamente praticabili. E solo se la coesione politica e il conflitto collettivo si sostituiranno alla competizione personale e mediale. Al Paese serve risentirsi ‘unito’, coeso anche politicamente non solo socialmente, per poter riavviare un scontro articolato di opinioni, ideali, posizioni politiche. E il governo deve cessare di essere il luogo centrale, lo spazio unico e privilegiato della manovra, come se fosse il trofeo di un incontro agonistico. Per cedere al Parlamento, invece, la sacrosanta fetta di dibattito politico che gli spetta. L’Italia nuova è anche un pezzo di Italia vecchia, che guarda ai nuovi bisogni e tenta risposte avanzate.
La sinistra rinasce nella coscienza politica se queste condizioni si ripristinano. Se il peso della sua rappresentanza sociale cresce. Se torneremo a dividerci in base ai nostri ideali e programmi, non in base al ‘tifo’ verso questo o quello, ‘pressati’ in schieramenti fittizi ma uguali nei contenuti. La sinistra rinasce a partire dalla sua ‘differenza’, risorta nella ritrovata cornice unitaria del Paese e nel dialogo tra cittadini e istituzioni. Fuori di questo spazio articolato della rappresentanza, della partecipazione organizzata e dei partiti essa è già morta, perde contatto col Paese, diviene una ‘ridotta’ marginale, soffre la mutazione storica, la subisce e poi, magari, finisce per confondersi con la destra. Ecco perché il destino della sinistra è il destino stesso del Paese: perché la sinistra italiana è nazione, cittadinanza, partiti, istituzioni, classi subalterne, partecipazione, articolazione sociale e mediazione alta. Contro tutto ciò si è mosso un mondo politico, economico, culturale che ha inteso cambiare lo scenario e le regole di ingaggio per far fuori l’avversario politico e sociale e ribaltare i rapporti di forza. Ripristinare questo scenario, o meglio opporsi al presente andazzo maggioritario-personalistico è il punto politico numero uno. Ridare corpo a una democrazia articolata e partecipata è la prima condizione. Serve una specie di ‘controcultura’, una direzione ‘ostinata e contraria’. Sennò, l’alternativa è calarsi pian piano verso quel ‘fondo’ in cui sguazza la destra: un fondo fatto di pulsioni, di immediatezza delle reazioni, di incessante disintermediazione, di frame mediatici, di personalismo spinto, di guru e di populismo delle classi dirigenti, che è persino peggiore di quello ‘ventrale’ del popolo. ‘Liberi e Uguali’, o quel che sarà, dovrebbe essere il germe vivo di questa rivincita democratica, di questo sussulto, di questo intervento consapevole sulle regole del gioco e sull’attuale egemonia culturale. In un colpo solo è in ballo il destino del Paese, quello della democrazia e quello della sinistra italiana. Non è poco. Perciò non lasciamo il pallino nelle mani dei nostri avversari. E non curiamo il male con il male stesso, ma con un’altra terapia, più congeniale, più affine alla nostra cultura politica.