Di Berlinguer si diceva che fosse poco efficace sul piano oratorio e avesse un’immagine troppo dimessa. Lo stesso si sosteneva di altri dirigenti, non solo del PCI. Zaccagnini, per esempio. E Moro. Non erano all’altezza del cipiglio craxiano che, come si diceva, ‘bucava il video’. Davano l’impressione di vivere con sofferenza il loro ruolo, di sentirne il peso dentro, di esprimere tutta la difficoltà che c’era nel fare politica con serietà e attenzione anche alle singole parole oppure ai singoli gesti. Figure anche tragiche. Berlinguer si è sentito male fatalmente durante un comizio. Moro è stato ucciso dai brigatisti. Donne e uomini che facevano una vita austera, irreprensibile, quando ciò, da un certo punto in poi, parve grigiore, non più una qualità. Il berlusconismo ha fatto il resto, certificando la necessità di darsi una immagine, di contendere i consensi in video rispetto a chi ancora faceva il porta a porta, di ragionare all’americana sui sondaggi e non più sugli umori e le sensazioni che si raccoglievano nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle sezioni, nelle scuole. Ricordo che anche di Prodi non si diceva granché bene. Era grigio, monotono, statico, a sentire qualcuno indossava la maschera di un perdente. Poi però ha battuto Berlusconi due volte, in un’Italia gaudente che sdoganava la destra.
L’idea che si debba comunicare bene, che la comunicazione consista in una serie di codici e registri da rispettare sul modello dei commercial, si è talmente conficcata nella cultura della sinistra, che oggi, per molti anche Grasso non saprebbe affatto comunicare. Perché esprimerebbe qualità umane troppo umane, dinanzi allo ‘Sturm und Drang’ renzo-berlusconiano, alla sfacciataggine di chi dice cosa tanto al chilo, di chi prima parla e poi pensa, di chi ha in mente prima la forma da assumere, e poi le cose da dire. La sobrietà, l’umanità, persino l’impaccio sono modalità umane ma non più caratteristiche politiche che destino almeno simpatia. Oggi il politico deve parlare a raffica, mostrare una sicurezza debordante, tenere il ritmo, di modo che tutti ne avvertano la presenza ma nessuno capisca effettivamente cosa stia dicendo, a parte la parola ‘bonus’, oppure l’interlocuzione ‘mi consenta’. In questo vuoto pneumatico, in questo bagno di plastica, l’umanità diventa perfettamente distinguibile. Quella di Bersani, per esempio. Così come la ‘normalità’ e la sobrietà intellettuale di Fratoianni o di D’Attorre. Oppure l’intelligenza affilata di D’Alema.
Pietro Grasso affronta l’agone politico opponendo la sua statura morale e le sue qualità umane e intellettuali. Non è solo un ex magistrato, è stato prima di tutto la seconda carica dello Stato. Un uomo della giustizia, delle istituzioni, che fatica ancora a destreggiarsi in quel minimondo complicato che è la politica italiana. Dalla Gruber è stato assediato, sottoposto a fuoco incrociato, perché lì si è ritenuto che fosse la strategia giusta per mostrarne l’inconsistenza, per dimostrare che non era lui, ma D’Alema e la sua ombra a dettare la linea a ‘Liberi e Uguali’. Il bello è che, anche a sinistra, moltissimi sono convinti che la comunicazione venga prima, al posto e in surroga della politica, e che la politica stessa debba essere seconda, ancillare, attenuata, sennò non si ‘vince’. Segno che il renzo-berlusconismo è passato anche da noi. Sono gli stessi che dicono ‘Grasso non è un leader’, e che invece sarebbe servito, che so, un Che Guevara, un Tito, oppure Napoleone, Giulio Cesare, ma non un uomo tutto d’un pezzo, moralmente integro, intelligente, coraggioso, unitario come l’ex Presidente del Senato. Non un ‘ragazzo di sinistra’, diventato uomo al servizio delle istituzioni, e oggi leader, testimone, figura simbolica, front man di una lista unitaria che speriamo possa diventare il partito nuovo, quello che tutti vorrebbero a sinistra: plurale, democratico, organizzato. Un partito che non c’è, come l’isola, ma che speriamo prenda corpo al più presto. For the many, not the few.