Demetrio fa il soffiatore di vetro. È l’ultimo di tanti fratelli e sa che non gli toccherà una parte di quel laboratorio di Murano dove ha imparato a maneggiare cannula e spatola, per fare gli animaletti soffiati di colori diversi che piacciono tanto alle tose o i vasi, i bicchieri, le caraffe che entreranno nelle case più umili ed in quelle dei Signori. E nemmeno un angolo del negozietto vicino a Piazza San Marco, dove quei ninnoli e gli oggetti del corredo si separano dalla famiglia Santi per un altrove.
La mamma è nata a Pola, quando non c’era ancora – o non c’era più – la frontiera. Demetrio è cresciuto con l’idea che ci si possa spostare, che si debba emigrare per vivere. Lascia la famiglia e va a Fornovo, vicino a Parma. Conosce Rosina, si piacciono, si sposano, nascono Olga e Aida.
Ma è la città, quella grande, che può offrire migliori speranze. Demetrio e Rosina, Olga ed Aida vanno a Milano, dove nascono Pia e Wanda. Siamo agli inizi del nuovo secolo – lo splendore del ‘900 – e Torino sembra che accolga chi ha voglia di… fare. E allora via di nuovo, i bagagli – quattro cose – e si parte per l’ex capitale del Regno d’Italia, dove a terminare il giro nasce Nino, che seguirà le orme del padre e soffierà le lampadine per una grande fabbrica olandese.
Stessi anni, la pianura di Mantova, Rivarolo. Giuseppe (Pino) non è attirato dal lavoro nei campi, anche se la famiglia ha i trattori, ‘le macchine’. A lui interessano molto di più altre macchine, i telai. E dopo la scuola, dopo il servizio militare in cavalleria, scampato per un anno alla Grande Guerra perché nato già nel nuovo secolo, lascia ai fratelli più grandi la cascina e arriva anche lui a Torino. Comincia a studiare i Jacquard, primi esempi di meccanizzazione, e disegnerà tessuti per tutta la vita, scampando pure alla seconda guerra mondiale, perché il suo lavoro per pensare nuovi tessuti per le uniformi lo tiene a Torino.
A Torino, nel frattempo, è arrivato anche Francesco, Ciccio. È venuto da Palmi Calabro dopo il terremoto di Messina. Ciccio ha studiato a Napoli, a Roma e quando comincia a lavorare conosce Clelia, una fanciulla di Biella. Si piacciono, si sposano, nasceranno Antonino (Nino) e Maria (Cocca).
Cocca è uno spirito libero, una donna che studia e a Torino incontra Salvatore. Che ha lasciato Catania dopo lo stesso terremoto ed a cui piacciono le macchine. Non quelle con quattro ruote, non i telai, a lui piacciono le locomotive. E nello scoppio di una locomotiva morirà in FIAT, lasciando Cocca, Franco e Sergio.
Franco cresce a Torino, per un pezzo siciliano, per un pezzo calabrese, per un pezzo biellese. Ed al liceo conosce Luisa; che è per un pezzettino veneta, uno spicchio parmense, una metà mantovana… perché è la figlia di Pino e Wanda.
Se tutto questo fosse successo una manciata di anni prima, tutti i protagonisti avrebbero avuto nazionalità diverse. Demetrio e Rosina avrebbero avuto figli austroungarici, del Ducato di Parma ed il Regno di Savoia. Ed i loro figli avrebbero incontrato giovani del Regno delle due Sicilie, Borbonici. Ed invece no, per qualche giorno, qualche mese, erano tutti Italiani.
Allora, quando sento, leggo, vedo qualcuno opporsi allo ius soli penso a loro, penso ai miei bisnonni, ai miei nonni, ai miei genitori (Franco e Luisa, lo avete capito) e penso a cosa sarebbe stato se ognuno di loro avesse avuto un passaporto diverso, di uno stato che non esisteva più, di uno in guerra, di uno in cui il terremoto o semplicemente la fame avevan costretto la gente a partire.
E penso a mia figlia, nata in Belgio da due genitori italiani. Ma Belga con doppio passaporto perché figlia di Italiana nata in Belgio.
E mi vergogno. Mi vergogno ogni volta che incontro Fatima, Chin Lu, Mario. Che parlano con un accento che io ho perso, ma che era il mio. Che sono nati dove io sono nato, nel mio stesso ospedale e hanno salito le grandi scale della mia sabauda scuola elementare con le stesse gioie e le stesse paure. Io in quella scuola ci ho votato per anni. Loro non possono. E io mi vergogno.