The Place, microfisica dei sentimenti nel cinema di Paolo Genovese

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Il cronotopo che cos’è? Nessun timore. E’ semplice: l’unità di tempo e luogo. Su questo presupposto lavora Paolo Genovese indagando la microfisica dei sentimenti. Così ha fatto in Perfetti sconosciuti. Così, ora, in The Place, presentato in chiusura della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, sceneggiatura con Isabella Aguilar, adattamento della serie televisiva Usa The Booth At the End. In fondo, basta un’idea, centrale, piccola o grande, poco importa: e tutto può girarle intorno, come l’ingranaggio, più o meno sincronizzato, d’un orologio. In Perfetti sconosciuti, una stanza, tre coppie, un amico, una figlia adolescente che sta uscendo. Nessuna ripresa esterna. A parte la terrazza per fumare e per ammirare un’eclissi, metafora di ciò che si nasconde e si rivela, facendosi, poi, tutti insieme, l’allegra e malinconica brigata, un fatidico selfie. Una banale serata tra amici e, durante la cena, la provocazione di mettere i cellulari sul tavolo, accanto a posate piatti bicchieri, rendendo gli altri partecipi dei messaggi in arrivo. Ne emerge un’Italia fragile: ricerca del lavoro, rischio di perderlo, vulnerabilità delle persone, precarietà delle relazioni.

Il registro di The Place non è molto dissimile. Fuori solo la strada, l’angolo dove è posto il locale, un’insegna: The Place. Dentro, un tavolino. Un avventore, Valerio Mastrandea, che non è soltanto il protagonista, ma il perno, indispensabile, del racconto. Ben provvisto di occhiaie, camicia senza cravatta, una maschera di noia e frustrazione. La violenza non si vede ma deve essere illustrata sin nei minimi particolari. Alla domanda: “Lei crede in Dio?” la risposta è “Credo nei dettagli”. I suoi clienti compaiono all’improvviso come candidati ad un provino. Mentre lui, funzionario del male, sta mangiando o bevendo, spremute di arancia, succhi di frutta, parecchi caffè, qualche coca cola, un whisky.

Come lui li vede entrare, si prepara a prendere in consegna le loro confessioni. Li ascolta. Ovviamente l’ultimo dei problemi è chi egli sia. Non ha alcuna importanza. Un disperato al cospetto di altri disperati. Il quale apre il volume fasciato da una sopraccoperta in pelle scura, scrive i suoi appunti, compulsa le pagine come alla ricerca di indicazioni e risposte, quindi lo richiude, facendo sentire, posandolo, il rumore ovattato del contatto sul tavolo. Il libro continua a rimanere un fondamento, nel bene e nel male, qui addirittura riabilitato nella chirografia, la scrittura a mano. Quando un “accordo” si conclude, con reciproca soddisfazione, segue uno specie di rito, con distruzione del relativo foglietto, in un piccolo falò, circoscritto allo spazio del posacenere in vetro.

Sulla sedia che gli sta di fronte scorre una carrellata di gente comune affidata ai volti di una variegata compagine di attori italiani. Marco Giallini è Ettore, pessimo poliziotto che vuol riconciliarsi col figlio, a cui è richiesto di picchiare a sangue una persona, poi di insabbiare la denuncia di uno stupro, e che, infine, decide di autodenunciarsi, di costitursi e di pagare per le sue colpe con il carcere. Alba Rohrwacher, suor Chiara, ha perduto la percezione di Dio nella sua vita e vuole ritrovarla, per questo le viene suggerito di avere un figlio. Vittoria Puccini, Azzurra, deve far in modo che un marito e una moglie si lascino se vuole che il suo torni con lei, ma finisce vittima di un femminicidio. Rocco Papaleo, Odoacre, meccanico, si prende a cuore la vigilanza di una bambina in pericolo, arrivando al punto di rapirla, pur di trascorrere una notte in compagnia di una delle ragazze dei poster della sua officina. Silvia D’Amico, Martina, intenzionata a farsi ladra per diventare più bella, organizzando una rapina per il valore esatto di 100.000 euro e 5 centesimi, con la complicità di Alex. Silvio Muccino, Alex, spacciatore, complice di Martina, non vorrebbe mai più vedere il padre, Ettore, però accetta di dichiarargli di volergli bene, anche se, almeno in una prima fase, non è vero. Vinicio Marchioni, Gigi, per sottrarre il figlio alla malattia, sarebbe pronto a uccidere un’altra bambina, ma poi vi rinuncia, la salva, ottenendo anche la salvezza del figlio. Alessandro Borghi, Fulvio, non vedente, desidera recuperare la vista e, per questo, accetta, ma solo a parole, di violentare una donna. Giulia Lazzarini, Marcella, per la guarigione del marito, affetto dall’Alzheimer, prepara un attentato con l’idea di lasciare una bomba in un luogo pubblico. Insomma, una specie di realtà seconda che finisce per intrecciarsi con la prima. Spetta ad Angela (nomen omen), che tutto osserva, paziente e disillusa conduttrice del locale, il colpo di scena finale.

Il male, il più insensato. D’altra parte, dai sassi lanciati dal cavalcavia alla testata di Ostia, più o meno è così. Sicché, in The Place, scorre davanti ai nostri occhi un’Italia fondata su ambizioni sbagliate disposta a tutto per i più futili motivi. Un po’ teatro della crudeltà à la manière de Antonin Artaud. Un po’ de Sade di borgata. Un po’ Raskòl’nikov della vita quotidiana. Solo che mentre Perfetti sconosciuti era spiazzante e divertente, nel prendersi gioco del feticcio del cellulare, in The Place, purtroppo, ci sono momenti in cui l’intrigo rischia di girare su se stesso. In un contesto nel quale la realtà sopravanza ogni immaginazione, non è semplice una fiction più efficace della cronaca.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.