Si è tenuta a Roma il 27 e il 28 ottobre scorsi un’impegnata conferenza promossa da Articolo Uno-Mdp, e conclusa da Massimo D’Alema, dal titolo: “Era notte a Roma. Dalla parte di chi lavora e di chi soffre”. Nel corso delle due intense giornate di lavoro è emerso con chiarezza, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la nostra sfida per il futuro di Roma è una sfida politica alta e insieme ricca di implicazioni culturali che, per così dire, la rendono ancor più complicata, ma anche più avvincente. Il punto di fondo sotteso al dibattito, sviluppatosi a partire dalla profonda crisi della capitale e dall’analisi dei suoi mali, mi sembra possa essere sintetizzato così: qual è il destino di Roma? Qual è l’odierna idea di Roma, necessaria per contrastare un declino che sembra inevitabile, e la cui formulazione deve interessare tutta l’Italia? Dunque, quale idea della Capitale proponiamo ai romani e al paese intero? Perché Roma è una grande questione nazionale.
Più volte è stato evocato il nome di Quintino Sella. Non per caso. Il grande ministro della Destra storica aveva un’idea precisa di Roma: a confronto con l’universalismo cattolico, proporla come città della scienza e della cultura. E si impegnò fattivamente in questa direzione. Ma soprattutto, bisogna aggiungere, l’intera classe liberale attrezzò in concreto Roma come una grande capitale del nuovo Stato nazionale. Fu una rivoluzione fatta di moderne opere pubbliche, ma, soprattutto, fu una rivoluzione politico-identitaria: il medioevo che finiva per sempre e la modernità che entrava nella Città eterna con il suo insieme di relazioni inedite, come un libero Parlamento, un sistema giudiziario avanzato, il complesso variegato di una libera stampa. Il sigillo encomiastico di tutto ciò giunse di lì a poco con la costruzione del Vittoriano, manifesto di marmo e di bronzo della Monarchia unitaria e costituzionale.
Anche il fascismo ha proposto la sua idea di Roma. Si può dire, anzi, che ha fatto di Roma l’idea centrale del fascismo. Per affermare il proprio primato, intriso di statolatria, di disciplina forzata, di espansionismo nazionalistico e per distinguersi dalla tradizione monarchico-risorgimentale. Anche questa idea si è concretizzata in una nuova, specifica forma della città: gli sventramenti viari, le campagne di scavi, per cui l’archeologia è divenuta ancella dell’urbanistica monumentale necessaria alla costruzione del consenso, quasi fosse la cornice futurista apprestata per passeggiate pubbliche e per una sfilata di carri armati. Né va dimenticato il raddoppio della città moderna ipotizzato e avviato all’EUR.
Solo che, sia nel caso dell’Italia liberale, ancor più in quello dell’Italia fascista, gli sforzi sono grandemente rimasti offuscati nella loro gravosa materialità, non sembri un paradosso, da pesanti e vuoti limiti retorici. Per fare di Roma una vera città moderna, lo notò acutamente Antonio Gramsci, sarebbe stato necessario sviluppare un’industria avanzata, concentrare nella capitale una massa operaia che la classe dirigente liberale aborriva per timore e paura di classe. E il fascismo non seppe costruire poco più che fondali propagandistici al prezzo della deportazione di intere fette della popolazione nelle borgate, mentre l’incompiutezza dell’EUR è la più clamorosa metafora di un fallimento tragico che ha per nome guerra disastrosa e distruzione dell’unità nazionale.
L’Italia repubblicana e democratica ha posseduto anch’essa un’idea di Roma, ma una volta tanto non a partire da un concetto astratto, da una affermazione ideologica che fosse la cornice di riferimento per disegni che, almeno in parte, ne smentissero i presupposti. L’Italia del dopoguerra ha agganciato l’idea di Roma al personalismo cristiano, declinato nelle sue varie sfumature, da un lato, e, dall’altro a una richiesta di soddisfazione inclusiva dei diritti sociali di matrice social-comunista. È stata una concordia discors, anche aspra, tesa, nella quale si sono affrontate forze politiche e sociali talvolta molto diverse, persino opposte, ma che, riguardata con l’occhio della prospettiva storica, ci appare fattiva di risultati positivi. È stata una concorrenza, un contrasto convergente che, almeno in questo caso, non ha creato orpelli ideologici. Dimostrazione come quella competizione andasse al fondo delle cose. Tuttavia il modello di sviluppo che ha sostenuto quei processi è oramai arrivato al capolinea: il meccanismo si è inceppato. In questo il convegno è stato unanime a cominciare dalla relazione introduttiva. E dunque che fare oggi?
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso Roma era giudicata una città “incomparabile”, non nel senso delle sue straordinarie bellezze, ma in quello del suo evidente affanno rispetto alle altre capitali europee. Tra Roma e Berlino, Londra, Parigi, persino Madrid, non c’era paragone. Quella distanza grazie all’impegno di alcune giunte di sinistra era stata un tempo ridotta. Ma quante di quelle speranze con l’andare degli anni sono però andate via via deluse? Molte, troppe. Oggi difficilmente troveremmo qualcuno disposto a dichiararsi soddisfatto di Roma e di come ci si vive. Siamo tornati indietro. E, siccome il moto, alla sua fine, è sempre più veloce, stiamo precipitando. Quindi bisogna recuperare una nuova idea di Roma come un punto politico-culturale non ideologico, ma imprescindibile, da cui discenda un programma che poi si incarni in provvedimenti concreti i quali sappiano dare risposte ai cittadini e ai loro bisogni insoddisfatti. Questa conferenza è stata un ottimo punto di partenza per cominciare a riflettere sulla Roma del futuro, per quella città dell’inclusione e dell’apertura al mondo, della produzione e della cultura, della formazione e dell’intelligenza che vogliamo costruire. Esiste la possibilità di un nuovo universalismo per Roma, per una città in bilico tra crisi dello Stato nazionale e difficoltà di costruzione d’un ampio quadro di riferimento europeo, fuori da quella omogeneizzazione degli spazi che sembra il destino inevitabile della città globalizzata, del quale l’indiscriminata fruizione turistica lasciata a se stessa è l’inevitabile, distruttivo corollario. La sfida, dicevo, è alta. Le forze migliori di Roma e d’Italia sapranno vincerla.