Non bisognerebbe mai autocitarsi; in deroga al bon ton, riprendo il passaggio di una cosa scritta, qui, un paio di mesi fa: “Diciamoci, con la dovuta franchezza, che la situazione libica è una delle concause della ricaduta sull’Italia del fenomeno migratorio, in queste forme, in queste proporzioni. Che non è accettabile, proprio per la dignità della persona, che quel territorio sia nelle mani degli scafisti, i nuovi schiavisti”. Esattamente alla vigilia dell’incontro promosso, in data 25 luglio 2017, da Emmanuel Macron a Parigi, con il presidente libico Fayez Serraj e il generale Khalifa Haftar, in un tentativo di mediazione che fattualmente ha contribuito ad incoraggiare l’iniziativa successiva del governo italiano.
Prima di tutto bisogna ricordare che l’immigrazione, nella parte riformata della Costituzione nel 2001, art. 117, comma b), proprio all’inizio del lungo elenco che arriva sino alla lettera s), è potestà esclusiva dello Stato. Presupposto confermato nella proposta di riforma costituzionale poi respinta dal referendum del 4 dicembre. Inoltre è corretto evidenziare che un percorso ordinato avrebbe suggerito che il governo italiano si occupasse della Libia prima, per tempo. Nella primavera del 2015 si era ad un passo dall’intraprendere qualcosa di utile. In un contesto già segnato dalla tragedia, con un pesantissimo bilancio di vittime. C’era allora chi pensava che il governo italiano avrebbe potuto adoperarsi per una soluzione politica, al fine di ripristinare in Libia un’autorità in grado di governare il fenomeno migratorio e di perseguire gli scafisti, al fine di normalizzare una situazione fuori controllo anche in relazione al pericolo di una penetrazione nell’area del terrorismo fondamentalista. Per quanto in un contesto di carattere tribale, frutto della disgregazione dello Stato libico dopo l’eliminazione di Gheddafi.
Nell’aprile del 2015, fu ipotizzata una missione, in primo luogo diplomatica, auspicabilmente sotto l’egida dell’Onu, con un’investitura da parte dell’Unione Europea, in grado di responsabilizzare, dal punto di vista diplomatico e umanitario, il Paese che storicamente, nel nord Africa, ha avuto e tuttora ha i maggiori rapporti con la Libia: l’Italia. Se ne fece nulla; non è mai stato chiarito bene perché.
La situazione è andata poi progressivamente aggravandosi. Il 5 luglio di quest’anno il “Fatto Quotidiano” ha riportato quanto affermato da Emma Bonino, già ministro degli Esteri nel governo Letta, intervistata dalla direttrice del “Giornale di Brescia” Nunzia Vallini durante la 69esima assemblea di Confartigianato Brescia, secondo la quale, tra gli anni 2014-2016, gli sbarchi in Italia sono stati la conseguenza di un accordo sottoscritto dall’Italia. Con questa chiosa: “All’inizio non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli”. Il riferimento è al fatto che l’operazione europea Triton, partita nel 2014, dopo la fine di Mare Nostrum, prevedeva che le navi dei Paesi europei che pattugliavano il Mediterraneo potessero trasportare in Italia i migranti soccorsi.
Concetto ribadito da Massimo D’Alema, già ministro degli Esteri nel secondo governo Prodi: “Chiunque conosca l’abc del diritto marittimo, sa che se una nave spagnola raccoglie un naufrago, una nave spagnola è territorio nazionale della Spagna e, sulla base del trattato di Dublino, che sicuramente, a mio giudizio, è da superare, tuttavia, anche sulla base di quel vituperato trattato, la Spagna avrebbe dovuto farsene carico; invece il governo italiano ha firmato un accordo che autorizzava le navi di altri Paesi a sbarcare nei nostri porti e lo ha fatto in cambio di soldi da parte della Unione Europea, soldi che sono stati utilizzati per fare bonus, regalie, cose varie che non sto qui a dire perché non voglio tornare a termini di politica generale”. Ancora: “Quello che sta accadendo in questi giorni e che viene accolto con sollievo da tanta parte dell’opinione pubblica merita una parola di preoccupazione. Perché abbiamo fatto un accordo con le autorità libiche, svariate autorità libiche, all’insegna di una grande operazione di Realpolitik, con una certa dose di cinismo, ed evidentemente poi, per influire sulle milizie del generale Haftar, abbiamo anche ripreso le relazioni diplomatiche con l’Egitto, perché è l’Egitto che ha influenza su Haftar, infischiandocene della verità sul rapimento e sul brutale assassinio di un ragazzo, di un giovane ricercatore italiano”. E infine: “Dopodiché abbiamo dato molti soldi a varie milizie libiche. Qualcuno dice persino che abbiamo dato soldi agli scafisti, dopo avere accusato le Ong, le quali Ong, con le loro navi, sì, è vero, incontravano gli scafisti, ma allo scopo di salvare quella povera gente, salvare la vita, per evitare il naufragio a mare dei profughi, mentre noi li abbiamo pagati perché se li tengano in Libia. In quali condizioni li tengono in Libia? Qual è il livello di rispetto dei diritti umani? Le testimonianze sono agghiaccianti. Io ho visto quelle di Medici senza frontiere. Stupri. Violenze. Assassinii. La Libia non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra sui diritti dell’uomo. Non c’è in Libia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati”.
Il 27 agosto l’Ansa ha dato la notizia dell’inversione di tendenza sulla vicenda libica, annunciando il sostegno all’Italia da parte di Germania, Francia, Spagna e Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nel documento predisposto per il vertice di Parigi. In relazione alle determinazioni dal ministro dell’Interno – già in precedenza l’accordo siglato a Roma il 31 marzo 2017 dalle tribù del sud della Libia, quindi il progetto di cooperazione con 14 comunità locali sulle rotte migratorie in Libia – assunte, evidentemente, d’intesa col presidente del Consiglio e col collega ministro degli Esteri. Alle quali hanno fatto seguito alcune reazioni che meritano di essere registrate. L’allarme lanciato da Medici senza frontiere: “L’Europa paga la Libia per commettere abusi”. Il racconto della vicenda di Ahmad Dabbashi, “Al Ammu”, in arabo “zio”, grazie al reportage di Lorenzo Cremonesi, dal titolo Migranti e scafisti, cosa accade davvero in Libia (sul “Corriere della Sera” del 9 settembre, dalla prima alle pagine 2 e 3), vale a dire la storia delle somme, si parla di svariati miliardi, investiti per garantire l’arresto delle partenze d’immigrati dalla Libia. Sino a un episodio a suo modo significativo.
Quando Angela Merkel, lo scorso 10 settembre, in piena campagna elettorale, a due settimane dalle elezioni federali, previste il prossimo 24 settembre, ha partecipato al meeting di Sant’Egidio, dicendo tre cose: 1) fermare i trafficanti di uomini; 2) aprire vie di accesso legali per i rifugiati; 3) non dimenticare chi è trattenuto in Libia in “condizioni catastrofiche”. Il tema libico, nel breve volgere di una stagione, da corridoio, non governato, di flusso d’immigrazione, si è trasformato in teatro di detenzione d’immigrati. Sino a far emergere un patto con le forze libiche che, a questo punto, dovrebbe essere chiarito. Prima, nel 2015, sarebbe stato opportuno intervenire, a fini umanitari, per aiutare la Libia a dotarsi di una maggiore affidabilità politica. Non è stato fatto; non si è potuto o non si è voluto farlo. Ora, l’intervento, tardivamente attuato, costituisce motivo di preoccupazione, in primo luogo sul piano umanitario, ma non solo.
La sequenza disordinata che ne risulta – e sino a che i centri di detenzione in Libia non saranno superati – non è un aspetto secondario per un Paese che propugna i “diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2 della Costituzione). Collegato a questo, il tema dello ius soli. L’annuncio della rinuncia ad approvare la legge è un’evidente sconfitta. Ma come ci si è arrivati? C’è il fondato sospetto di uno scambio – politico – che unisce la tragedia libica ad altro: alle elezioni regionali in Sicilia, all’ormai prossima legge di Stabilità, sino a una materia come quella elettorale. Il capogruppo Pd al Senato ha affermato: “La maggioranza non ha voti per approvarlo”. Una frase involontariamente rivelatrice della situazione. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, sul dietrofront al Senato, ha detto: “certamente un atto di paura grave”. Il presidente del Consiglio dei ministri: “Sullo ius soli, l’impegno rimane”.
Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione meriterebbe un orientamento più chiaro. Nel frattempo “Avvenire” ha parlato di uno ius culturae. Per Romano Prodi oggi “lo stop allo ius soli è un calcolo sbagliato”. Ius loci e immigrazione non hanno relazioni dirette, bisogna spiegarlo bene all’opinione pubblica, per non ingenerare fraintendimenti, di cui non c’è alcun bisogno, soprattutto in questo momento. Ma approvare lo ius loci non solo è un atto giusto in sé; ma potrebbe anche costituire l’occasione per correggere il tiro, operando per assicurare, in Libia, adeguate condizioni di rispetto dei diritti umani.