L’autonomismo italiano, nella sua evoluzione, dalla Costituzione del 1° gennaio del 1948 a oggi, ha avuto diverse fasi. Con punti di snodo come la legge 142 del 1990, che ne ha rilanciato le funzioni, sino alla legge 81 del 1993, quella dell’elezione diretta, rivelatasi un buon compromesso tra governabilità e rappresentanza, in grado di collegare sindaci e consigli allo stesso destino, come si è potuto osservare in alcuni casi di cronaca sia in grandi sia in piccoli Comuni. Qualcosa che è talmente “passato”, nel sentimento popolare, che sarebbe inimmaginabile tornare indietro, non tanto per via della “personalizzazione”, quanto per il beneficio di una chiara imputazione di responsabilità. Poi tutto il dibattito successivo sul “federalismo” che, in parte, ha portato alla riforma del Titolo V nel 2001, sino al tentativo, non riuscito, da parte del centrodestra, più di un decennio fa, di promuovere, come allora si usava dire, la devolution.
Non c’è bisogno di sottolineare il significato politico del referendum del 4 dicembre, il suo esito, il suo rilievo. Si potrebbe riassumere così: la reductio ad unum, alla prova dei fatti, non ha retto, non ha ricevuto l’attesa legittimazione. Hanno prevalso altri valori costitutivi: il pluralismo politico; la poliarchia istituzionale; il policentrismo del Paese (in particolare al sud, nell’area del disagio sociale, nelle periferie). Un progetto di riforma ha bisogno di fondarsi sul concorso di una molteplicità di fattori. Giuseppe De Rita ha dedicato una vita a sostenere come una programmazione adeguata richieda uno spirito coalizionale, dal basso, a partire dalle comunità locali, perché la spinta centralistica, ogni volta che si rimette in moto, deve fare i conti con un centro che, senza relazioni sistemiche, è debole.
Nel frattempo, nel corso di una crisi lunga ormai quasi un decennio, il contesto locale, tra indubbi limiti e difficoltà, ha cambiato pelle: riqualificazione della spesa, esigenza di fare di più con meno, contrasto agli sprechi, sviluppo di un’economia sociale di comunità nella quale il bilancio di un Comune ormai è una parte, non più il tutto e, purtroppo, siccome il federalismo si è espresso specialmente in campo contabile, un’accentuazione della pressione fiscale locale in corrispondenza dei tagli dal centro. I Comuni sono diventati punti nevralgici di organizzazione sociale delle comunità locali, non solo erogatori di servizi. Ciò, in prospettiva, non può non sollecitare ulteriormente l’idea di una Regione regolatrice, istanza di legislazione secondaria, in grado di affidare la gestione ad un sistema degli Enti locali profondamente ammodernato sul fondamento civile del governo di prossimità.
Ora, al di là delle ripercussioni politiche e non solo politiche del referendum del 4 dicembre e trascurando altri aspetti pur meritevoli di attenzione, vorrei concentrarmi sulle questioni relative al riordino istituzionale locale. Da questo punto di vista, il referendum ha evidenziato un lavoro incompiuto rispetto all’ispirazione del legislatore, nell’ambito degli enti di governo d’area vasta, Province e Città metropolitane. La legge ordinaria n. 56 del 7 aprile 2014, comunemente detta Delrio, aveva avviato una trasformazione delle Province, in attesa di una loro abolizione, di competenza di una legge di rango costituzionale, ai sensi dell’art. 138, che non c’è stata. La legge costituzionale, sottoposta al responso del referendum confermativo, com’è noto, ha visto una netta prevalenza dei “no” sui “sì”. Prima ancora che un’appartenenza di schieramento o di partito, quei voti sono un’espressione della volontà popolare, della sovranità popolare.
Le legge 56/2014 resta legittimamente vigente, ma come mancante di un completamento. Anche per questo essa meriterebbe un tagliando, indotto da un doveroso approfondimento. Da un lato sulla qualità del progetto metropolitano; dall’altro sulla condizione tra un “non più” e “non ancora” delle Province. Anche al lavoro legislativo dovrebbe applicarsi il principio galileiano delle “sensate esperienze” e delle “certe dimostrazioni”; ovvero il metodo “per prove ed errori”; considerando, senza pregiudizi, i risultati insieme all’opportunità di eventuali correttivi.
In sostanza: il referendum è passato; le Province sono rimaste, nella carta costituzionale e nella concreta, per quanto rivisitata, esperienza amministrativa. Nonostante tutto; nonostante l’espressa volontà politica da parte di un amplissimo arco di forze; nonostante una campagna di stampa che ha costituito un caso di studio in ordine al fenomeno del “capro espiatorio” ben studiato da René Girard; nonostante tutto questo, le Province, per quanto dimidiate, sopravvissute all’annunciata scomparsa, son sempre lì. Non si tratta di farle rinascere: ma di prendere atto che le Province non sono mai scomparse e che forse ora si tratta di risignificarle. Certo, nel frattempo, sono andate indebolendosi sia nella rappresentanza democratica, sia nella funzionalità, con concrete conseguenze sulle comunità locali in molti campi: dall’edilizia scolastica al sistema viabilistico.
Uno dei presupposti impliciti della legge 56/2014 e poi della esplicita riforma costituzionale, in prospettiva del superamento del bicameralismo paritario, con un Senato non elettivo, era la cultura degli enti di secondo grado. Assemblee, sia quelle delle attuali Province, sia delle Città metropolitane, sia quella del possibile nuovo Senato, definite sulla base di una scelta effettuata nell’ambito di amministratori già eletti. L’ipotesi della legge 56/2014 era un governo “a due gambe”: Regioni e Comuni. Questi ultimi fondamento degli enti di area vasta, provinciali e metropolitani. L’esito referendario restituisce l’esigenza di una verifica anche intorno alla tenuta di questa soluzione. Il tema: come conferire adeguatezza al disegno complessivo.
Se la nuova dorsale istituzionale avrebbe dovuto andare dalle Unioni dei Comuni agli enti di governo di area vasta, provinciali e metropolitani, sulla base di organismi di secondo grado sino al Senato, la sopravvivenza del Senato, come assemblea elettiva, suggerisce l’esigenza di una riflessione in ordine alla configurazione democratica di tutta la filiera, quanto meno per coerenza, specie in riferimento ad enti preposti alla rappresentanza di significative porzioni di territorio e non privi di un certo dimensionamento demografico. Con una precisazione indotta dall’esperienza: le Unioni rappresentano sicuramente un passo avanti; ma il vero obiettivo deve essere la fusione, perché essa garantisce, al contempo, la semplificazione e le elezioni. E’ giunto il momento di superare una discussione datata e di aggiornarla. Siamo tutti contro gli “enti inutili”. Ma, come si è visto, non basta usare le forbici; occorre organizzare un sistema nuovo e che funzioni. Sapendo che ben il 70% dei Comuni italiani non supera i cinquemila abitanti, che ben oltre la metà degli 7.978 Comuni italiani (erano 8.100 sino a pochi anni fa) non raggiunge i tremila abitanti e che circa 750 sono inferiori ai 500.
Sia chiaro, non è facile promuovere il nuovo. Bisogna confrontarsi con la fatica del cambiamento, reale, non solo immaginato, tra passi avanti, ripiegamenti, involuzioni. Va attentamente considerata l’attesa della cittadinanza nel non sentirsi disconosciuta sul piano delle istanze di partecipazione. Un cambiamento astratto, calato dall’alto, deve essere consapevole che occorrono processi inclusivi, opportuni monitoraggi in itinere, non decisioni autoritative. E’ opportuno sottoporre a verifica alcune questioni. Per esempio: l’efficacia della sovrapposizione dei ruoli, il cumulo delle cariche, tra sindaco metropolitano e sindaco del Comune capoluogo, tra sindaco di un Comune e presidente della Provincia, tra amministratori di un Comune e consiglieri o assessori provinciali e metropolitani. Si pensi solo a situazioni di difficoltà, oggettiva e soggettiva, come Roma, nel rapporto tra sindaco della prima città d’Italia e sindaco metropolitano, con effetti di rallentamento, se non di paralisi, delle dinamiche istituzionali che dovrebbero essere, invece, come giustamente si racconta, caratterizzate da semplificazione, snellezza e speditezza.
C’è anche il rischio di risposte troppo chiuse nella logica istituzionale a problematiche economiche e sociali. Non basta dirsi Città metropolitana per esserlo; o limitarsi a cambiare la targhetta negli uffici; ovvero nelle principali aeree urbane del Paese, non tutte, ma nella gran parte identificate con i capoluoghi regionali, una società e un’economia metropolitane esistono indipendentemente dalla denominazione istituzionale. Talvolta si ha l’impressione che si pensi più alla forma che alla sostanza, trattando le istituzioni non come organismi vitali, ma come ingranaggi, macchine da smontare e rimontare, non evoluzioni della polis, con un’anima, un ethos. I diritti non meno rilevati dei compiti. Il progetto di riordino, da un lato, è stato troppo gravato da visioni aziendalistiche, dall’altro da un’idea della politica come incastro di ruoli apicali, piuttosto che come proposta aperta e inclusiva.
C’è poi un’ansia omologante, uniformante, che quando produce ottimizzazione può anche avere un senso, quando entra in contrasto con una ragionevole flessibilità crea solo inciampi e complicazioni. Il tema vero dovrebbe essere quello inerente a una nuova lettura delle questioni territoriali. Dalle esternalità chiamate a gestire i “beni comuni”: dall’acqua al ciclo dei rifiuti alla qualità dell’aria. Alle autonomie funzionali: dal sistema fieristico a quello aeroportuale a quello della mobilità. Per un sistema pubblico più adeguato e per l’affermazione di un più forte interesse pubblico. Certo, per partire, l’ente di secondo grado si è rivelato indispensabile. L’ipotesi di un’elezione diretta va preparata. Bisogna trasformare il Comune capoluogo in municipalità, attraverso referendum, col voto del territorio. Sicché: è stata utile una fase di rodaggio; ma essa non esclude, anzi per certi versi sollecita, un approfondimento che può comportare un provvedimento legislativo volto a fare ulteriore chiarezza sulla materia (ormai, ovviamente, nella prossima legislatura).
Tuttavia, in una fase di deficit d’investimento popolare delle nostre istituzioni, con un fenomeno astensionistico prossimo alla metà circa degli aventi diritto al voto, l’idea di affrontare i costi della politica affidandosi non già a una ponderata riduzione dell’insieme degli incarichi, ma a verticalizzazioni monocratiche e/o monocolori, non risulta corrispondente all’esigenza di far contare di più i cittadini nelle scelte. Non si tratta solo di mettere a posto un puzzle. In questione è la definizione di una nuova sovranità democratica per le politiche locali nonché per le scelte d’area vasta. Per questo non è ragionevole escludere di arrivare a un più esplicito fondamento democratico. Senza timore di affrontare nodi quali, da un lato, quello, oggi molto sentito, dell’identità locale; dall’altro, delle reti globali. Unendo i due aspetti.
Da La città post industriale (Bologna, il Mulino, 1984) a L’arte di curare la città (Bologna, il Mulino, 2000) e oltre, Pier Luigi Cervellati ha sottolineato come “Ri-fondare la città può assumere il significato di ri-centrare località e identità cancellate dall’espansione urbana” (L’arte di curare la città, p. 95). E ha aggiunto: “La nuova città-metropoli, formata da centri e luoghi, diventa l’antidoto alla omologazione periferica. Ritorna ad essere la città che distrugge la periferia” (p. 102). “Metropoli sta ad indicare città-madre, città madre di città” (p. 100). “La città metropolitana: città delle città” (p. 101). Ciò che conta è il progetto di una nuova dimensione del vivere sociale e civile. Rifondare la città, quindi, per trasformare in centro la periferia, un centro che faccia parte di una rete civica, in un sistema plurale. La città-metropoli è interessante solo se si fa sistema territoriale, rovesciando la logica delle periferie e trasformandole in nuove realtà vitali. Se no, non serve; non è un nuovo assetto, ma l’allargamento del vecchio.
Il riconoscimento della centralità delle periferie è un problema politico di primo piano. Periferie come composizione sociale, come dimensione del vivere, dell’abitare e del fare relazione sociale, coesione sociale. Come hanno dimostrato gli ultimi passaggi elettorali. La questione degli enti di governo di area vasta, provinciali o metropolitani, non risiede solo nelle quantità, demografiche o infrastrutturali, ma anche, se non soprattutto, nella qualità di un disegno innovatore che sappia produrre connessione tra città e territorio, unendo la città storica e quella in divenire nella nuova forma urbis.