Tre le città di Renato Zangheri. I natali a Rimini, l’8 aprile 1925. Poi, Bologna. Ma anche Imola, dove, a un certo punto, decide di andare a vivere i suoi ultimi anni, raccolto tra gli studi e la famiglia. All’Università di Bologna, allievo di Luigi Dal Pane. Dal 1965 professore ordinario di Storia delle dottrine economiche. Nel 1944, l’adesione al Pci. Nel 1956, in Consiglio comunale. Dal 24 luglio 1959, assessore di Giuseppe Dozza. Dal 28 settembre, con lui, nasce l’assessorato alla Cultura. Dal 29 luglio 1970 al 29 aprile 1983 è sindaco. Altri avrebbe potuto diventarlo al suo posto; prevalse lui, premiato per l’esperienza amministrativa, piuttosto che per il profilo di partito. Dal 1986 al 1990 è capogruppo alla Camera, dopo Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica che, proprio in Comune a Bologna, l’ha commemorato, nel trigesimo della scomparsa. Come pochi altri Renato Zangheri è stato interprete di un tentativo di unire amministrazione, cultura e politica, nell’esperienza peculiare del capoluogo bolognese, col suo carico di significati per la sinistra di governo. Per il prestigio super partes di cui ha goduto, anche dopo l’impegno attivo, è sempre stato coinvolto, semplice iscritto, come presidente nei congressi del suo partito.
Vorrei soffermarmi su alcuni aspetti della sua azione. Oggi è sin troppo evidente la tendenza a racchiudere nell’istante, frettoloso o affrettato, progetti che meritano d’essere impostati attraverso sforzi protratti nel tempo. Le due principali istituzioni culturali del Comune di Bologna sono la Fondazione Cineteca e il MAMbo. Entrambe devono a lui i loro primi passi, a partire dall’inizio degli anni Sessanta (più di mezzo secolo fa). Come sindaco, dal 29 luglio 1970 al 29 aprile 1983, Renato Zangheri ha cercato di affermare il valore dell’autonomia, non rivendicata, espressa: sin nell’orientare, autorevolmente, la selezione del Segretario generale in un tempo in cui era il Ministero degli Interni a decidere. Zangheri scelse il dottor Fulvio Medini, nominandolo nel 1975 vice segretario generale e l’anno seguente, con buona pace del ministro degli Interni pro tempore, segretario generale, confermato dai sindaci successivi, sino alla fine del 1997. Dopo il periodo della ricostruzione, segnato dalla figura di Giuseppe Dozza, l’impulso dato alle infrastrutture da parte di Guido Fanti, l’amministrazione con Renato Zangheri ha rappresentato lo sviluppo dei servizi, specie di profilo sociale e educativo, dando vita a un modello di welfare comunitario che poi ha accompagnato una domanda sociale in trasformazione (almeno sino ad un certo punto). E’ stato il suo tratto distintivo, la sua cifra. Nacquero così scuole dell’infanzia in tutti i quartieri. Arrivando sino alla sperimentazione del bus gratis per tutti. Una decisione controversa, che non resse alle critiche e che fu revocata; ma che fu nondimeno inerente alle priorità che un Ente locale può motivatamente darsi.
Anni non facili; la strage dell’Italicus nel 1974; il travaglio del Settantasette, con una riflessione successiva, di cui non ha mancato di dare testimonianza, anche in modo autocritico. Renato Zangheri è mancato il 6 agosto di due anni fa e questa è un’occasione, nel ricordarlo, per evidenziare il modo come egli seppe affrontare, in particolare, la drammatica circostanza della strage del 2 agosto 1980. Quando l’esplosione avvenne, era fuori Italia; riuscì a tornare e a prendere subito in mano la situazione. 85 vittime, 200 feriti. A volte pensiamo al terrorismo come a un pericolo possibile; ed è così; ma il terrorismo è stato anche un fatto, nel nostro Paese, già duramente patito. Quello di Bologna il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra.
Tra i primi fotografi ad accorrere, Umberto Gaggioli, operaio metalmeccanico, formatosi alla fotografia nel circolo aziendale della Sabiem. Soprannominato il fotografo della scala perché, durante le manifestazioni, sindacali e politiche, specie in piazza Maggiore, se ne serviva. Ha lasciato un’ampia documentazione di immagini, scattate dopo l’esplosione della bomba, lo sventramento appena avvenuto, il dispiegamento dei soccorsi (ne ha scritto Luca Telese, in Qualcuno era comunista, Milano, Sperling & Kupfer, 2009, pp. 29-30). Poi il processo con sentenze sino al terzo grado di giudizio. Eppure qualcuno continua a disconoscerle. Stato di diritto significa rispettarle. Da quel momento Bologna non dimentica. Anche quest’anno non mancherà di farlo, insieme all’Associazione tra i familiari delle vittime. Titolo: La storia non si archivia. E una mostra: Con le mani, pensata per ringraziare i soccorritori di allora, medici, infermieri, volontari, in un percorso di condivisione con i superstiti. Ma l’Associazione pone un problema che va oltre gli esecutori materiali: riguarda i mandanti. Lo Stato democratico non deve aver timore della verità. Soprattutto dopo tanto tempo. Nei giorni scorsi Articolo 1–Mdp Bologna ha espresso sostegno all’Associazione anche su altri temi quali la mancata applicazione della legge 3 agosto 2004 n. 206 e della direttiva 22 aprile 2014 sulla declassificazione degli atti concernenti la strage del 2 agosto (così come per Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, Rapido 904) sino all’esigenza d’imprimere un’accelerazione alla digitalizzazione della documentazione. Nel tempo si è posto il problema di cambiare il formato della manifestazione, ma la piazza continua ad essere il luogo più degno per fare memoria in modo trasparente e condiviso. Dalle 9 in piazza Nettuno; poi il corteo lungo via Indipendenza sino a piazza Medaglie d’oro, dove, nella selva dei gonfaloni provenienti da tutta Italia, una comunità rivive l’istante dello sgomento e della solidarietà. Da 37 anni lo speaker ufficiale Alberto Mazzanti legge i messaggi e introduce i relatori. Poi il fischio del treno che invita a un minuto di silenzio, sotto il vecchio orologio fermo per sempre alle 10.25 posto sull’ala della stazione colpita dall’esplosione.
Rimane indelebile l’immagine della mano di Sandro Pertini, posata in modo affettuoso, come quella di un padre col figlio, sul bordo del leggio, mentre Renato Zangheri, alle 18 del 6 agosto 1980, pronuncia il suo discorso, durante la commemorazione, di fronte a una piazza immensa, ferita, ma indisponibile a piegarsi al terrorismo. Pertini e Zangheri, uniti dalla stessa cultura antifascista e costituzionale. L’anno successivo, in occasione del primo anniversario, Renato Zangheri volle affidarsi alla voce di Carmelo Bene per una Lectura Dantis dalla torre degli Asinelli che, nel vissuto civile di Bologna, è rimasta come un momento di altissimo profilo.
Per i suoi interventi Renato Zangheri preparava bigliettini, vergati a mano, con una scrittura leggera, sottile, che poi leggeva piano, aggiustandosi gli occhiali, con un filo di voce. Sapeva partecipare a un’assemblea di lavoratori o di studenti e contestualmente intrecciare relazioni con gli ambienti della ricerca, delle professioni, dell’impresa. Ovvero con figure rappresentative, nel mondo cattolico, come padre Michele Casali (animatore del Centro San Domenico) o, in quello laico, come Mario Cagli, uno dei pochi, in terra emiliana, a collaborare alla pagina dei commenti di Repubblica sin dalla fondazione. Renato Zangheri è stato stimato, amato, temuto, anche avversato. Sono stati scritti libri in proposito; non mancano testimonianze e ricordi. Per la verità non c’è figura di un qualche rilievo, politico, ma non solo politico, che non sia segnata da dispute o contese. Come ho già accennato, egli ha poi voluto finire i suoi giorni, scegliendo la località posta tra Rimini e Bologna, vale a dire Imola, in tal modo tornando, non solo metaforicamente, alla cultura del socialismo delle origini, alla città di Andrea Costa dopo quella di Luigi Zanardi, riprendendo e approfondendo i suoi studi, a proposito dei quali vorrei fare un cenno conclusivo sul suo lavoro di storico, sulla sua partecipazione alla Storia del marxismo (Torino, Enaudi, 1982, curata, tra gli altri, da Eric Hobsbawm); quei volumi che, nell’agosto 1988, leggeva anche Bruno Trentin, come rivelano i Diari 1988-1994, a cura di Iginio Ariemma, Roma, Ediesse, 2017, di cui, spero, riparleremo presto).
Alla fine del quarto volume (Il marxismo oggi), nel saggio Tra crisi del capitalismo e nuovo socialismo in Occidente, è un capitolo intitolato La crisi dello Stato sociale e il problema della democrazia (nel quale – 35 anni fa – toccando argomenti allora inediti, Renato Zangheri scriveva: “Sono necessari in questa situazione metodi di direzione elastici, capaci di autocorrezione, processi graduali di cambiamento, forme di autogestione” (p. 639). Aggiungendo: “è necessario pensare a un sistema politico di democrazia aperta”, ad “un maggior potere di enti e associazioni autonomi, sorti dalla società civile o ad essa collegati, pubblici e privati, una maggiore capacità di autorganizzazione della società”, sino allo “scioglimento del rapporto di identificazione Stato-partito” (p. 643). Parole il cui valore non credo abbia bisogno di commenti: siccome rivelano, con sufficiente chiarezza, la piena coscienza, già allora, del cambiamento indotto dalle nuove sfide.