La politica è fatta anche di comunicazione, impossibile negarlo. Anche quando si chiamava più rozzamente ‘propaganda’ era così. Se alla politica togliessimo questo aspetto, ne resterebbero molti altri (l’elaborazione teorica, l’organizzazione, il dibattito, la progettualità e persino la conflittualità), ma sarebbe come se tutto ciò accadesse in un ambito chiuso, senza porte e finestre, riducendo ogni aspetto a una contesa ristretta tra le élite, a decisioni prese in stanze chiuse, a una specie di implosione. Comunicare la politica vuol dire, invece, ‘democratizzarla’, vuol dire pensare il consenso come risorsa e come fondamento dell’agire pubblico, perché è grazie al lavoro della comunicazione che il consenso stesso è possibile, e diventa fattore rilevante, risorsa, componente essenziale dell’iniziativa politica. Senza comunicazione (ossia senza apertura della dimensione politica al ‘popolo’) non c’è fondamento al consenso, senza consenso non c’è democrazia. La famosa ‘casa di vetro’ è costruita anche grazie al carattere ‘trasparente’ e ‘comunicativo’ della politica, allo sforzo di esprimerne il contenuto, e al ruolo che questa ‘espressione’ svolge nell’economia delle polis e delle democrazie moderne.
Detto questo, con l’andar del tempo, con l’evoluzione sempre più rapida dei dispositivi mediali e con la pervasività che li contraddistingue in modo crescente, lo ‘strumento’ comunicativo è divenuto sempre più potente e autonomo, spingendo al ribaltamento del tradizionale rapporto tra mezzi e scopi. La necessità di comunicare, e di farlo sempre più potentemente, ha spostato con forza l’attenzione sui mezzi tecnici e sulla loro efficacia, deviandola dai fini. La necessità di ‘vincere’ (l’era del maggioritario non concede più chance al perdente, che diventa uno sfigato) spinge ad accrescere la potenza del mezzo stesso, a discapito dei contenuti e della collocazione concreta del contendente, destra o sinistra che sia. La tecnica assume risvolti sempre più decisivi all’interno della contesa politica e di fatto la neutralizza. La rete, intanto, crea nuovi spazi e canali in cui attivare la contesa comunicativa, rafforzando la tendenza già in atto. In altri termini, una politica sempre più debole viene sopraffatta o quasi dai mezzi sempre più potenti e raffinati di cui si serviva (e che servivano alla democrazia). E perde di vista i suoi scopi effettivi (il governo della cosa pubblica) per concentrarsi su quelli tecnici (accrescere la comunicazione per conquistare consenso e conquistare il potere). Il vecchio ‘mezzo’ diviene fine a se stesso, un potente viatico verso la vittoria, mentre la politica è assorbita dagli aspetti tecnico-comunicativi. E diventa, perciò, comunicazione-politica.
Detto più semplicemente: il mezzo diventa lo scopo, e vincere diventa l’unico fine. Il ribaltamento è dunque completo. E raffigura quel che è diventata in molti casi la politica: una lotta a vincere, dove tutti i mezzi sono utili purché potenti, e dove soprattutto essi contano di più degli ‘scopi’ politici in lotta tra loro, dei programmi, della rappresentanza sociale, del bene pubblico. La ‘macchina’ del consenso non si mostra più al servizio della democrazia, e non è più la politica a indicare gli indirizzi, ma il contrario. Alla politica del consenso si è sostituita la tecnica del consenso, con annessi e connessi. Primo tra tutti, il livellamento dei contenuti, spesso il loro vuoto assoluto. Se vincere è importante si vince adottando il contenuto più efficace alla bisogna, quale esso sia, anche quello che contraddice i propri valori di fondo (sempre che ve ne siano). In secondo luogo, la comunicazione prende la mano alla politica, decide essa stessa le strategie, i passi da fare, i percorsi. Il guru vale più di una segreteria politica, l’attuale Jim Messina più del vecchio Franco Rodano (e comunque il primo qui non ha mai vinto niente). Ribaltare il rapporto tra mezzi e fini è come spogliare la politica del suo valore democratico e ridurla ad ancella della comunicazione. Il renzismo, in fondo, è solo lo specchio più sciagurato di questo andazzo. Il vuoto che respiriamo è indotto da un meccanismo che stritola la capacità di tener fermi i nostri fini, per costringere in percorsi sempre più tecnici, anonimi e sbiaditi, dove tutto sembra grigio o è destinato a ingrigire. Il vero Apparato è questo complesso tecnico-comunicativo, non i partiti politici, persino quelli novecenteschi.