Riparliamo di Turchia, a un anno dal fallito (o falso) colpo di stato

| Esteri

Si dice che la prossima campagna elettorale verterà tutta sull’immigrazione. Vedremo.

Certo è che – se il buon giorno si vede dal mattino – sarà proprio brutta e provinciale. D’altronde in giro per l’Italia e l’Europa statisti al governo non se ne vedono. Anime di Clement Attlee, Adenauer, Robert Schumann, De Gasperi, Togliatti e Spinelli dove siete?

Proviamo ad alzare lo sguardo e a capire che il flusso dei migranti è dovuto all’instabilità di Africa e vicino Oriente e che per governarlo ci vorrebbe una cosa che si chiama “politica estera”. L’Italia e l’Europa non la fanno più da anni. Volete la prova? Eccola, si chiama Turchia.

Un Paese enorme, bellissimo, 80 milioni di abitanti, una forza lavoro quasi illimitata, ricchezze culturali e naturali sterminate. Ed è paese di transito di quanti fuggono dalla Siria e dall’Iraq. Ci dovrebbe interessare moltissimo quel che vi accade, invece balbettiamo.

Valga questo modesto pro-memoria. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, un gruppo di ufficiali dell’esercito, al comando di alcuni battaglioni e appoggiati da settori dell’aviazione, prese momentaneamente il controllo dell’aeroporto di Istanbul e della radio nazionale turca, mentre il presidente Erdogan era a Marmaris, sulla costa occidentale del paese. Un elicottero attaccò la sede della Grande Assemblea turca. La marina non aderì alle operazioni, così come non vi presero parte i vertici delle forze armate. La polizia rimase fedele a Erdogan. Il golpe fallì nel corso della nottata. Alcuni militari che avevano partecipato al tentativo di colpo di Stato fuggirono all’estero.

Secondo Lucio Caracciolo (direttore di Limes), l’operazione – ispirata da Fetullah Gülen, predicatore e politologo espatriato negli Stati Uniti – sarebbe fallita per aver mancato per poche ore l’arresto di Erdogan e ciò sarebbe da ascrivere, in parte, alla dimensione troppo circoscritta delle unità militari che ne avevano assunto l’iniziativa (poche divisioni e capeggiate da ufficiali di grado medio-alto ma non altissimo); e in parte, all’insufficiente preparazione dei passaggi pratici dell’operazione. Secondo il corrispondente del Corriere della sera Antonio Ferrari, viceversa, l’intera vicenda sarebbe stata, in larga misura, una montatura inscenata da Erdogan stesso, per costituirsi un pretesto per scatenare il definitivo assalto agli oppositori interni.

Come che sia, una repressione massiccia, cruenta e prolungata effettivamente seguì. Arresti di oppositori, giornalisti, avvocati e insegnanti, destituzioni e purghe nei ranghi degli apparati statali e chiusure di giornali e stazioni radiofoniche sono avvenuti in numeri mai visti nella recente storia occidentale (gli arresti si sono contati nell’ordine delle decine di migliaia).

Al culmine di questa violentissima reazione, il governo turco ha notificato al Consiglio d’Europa (21 luglio 2016) l’attivazione della deroga provvisoria al vigore della Convenzione europea dei diritti. Siccome la notifica è stata poi reiterata, di fatto possiamo affermare che in Turchia la validità del più potente strumento di tutela dei dritti umani è sospeso a ogni effetto pratico.

Né la gravità della situazione si poteva comprendere appieno senza considerare che, già il 20 maggio 2016, il Parlamento turco aveva approvato una modifica in materia d’immunità parlamentari, che di fatto consentiva l’arresto dei deputati in carica (!) invisi a Erdogan.

Per tutto l’anno questo andazzo è proseguito, passando per il tifo di Erdogan per la vittoria di Trump, fino al referendum istituzionale del 16 aprile 2017, in cui Erdogan ha riportato una vittoria tanto risicata quanto contestata, a motivo delle irregolarità testimoniate anche dalle organizzazioni internazionali.

Wikipedia e social media sono ancora vietati: con oltre 80 giornalisti in carcere, la Turchia è salita alle prime posizioni del censimento internazionale per la repressione della stampa. Il 15 giugno è partita da Ankara la marcia per la giustizia degli oppositori a Erdogan e si è conclusa il 9 luglio a Istanbul, per chiedere la liberazione del deputato del partito repubblicano kemalista Enis Berberoglu. Ha coinvolto qualche milione di persone. Le quali a un anno dal golpe fallito ancora trovano la forza di opporsi al sultano.

Tutto questo per dire? Che politiche sulle migrazioni e geo-politica vanno insieme; che dire “aiutiamoli a casa loro” non ha senso, se la casa cui ci si riferisce è il teatro mediterraneo e medio-orientale che – quando va bene – ha le sembianze del brutale regime turco e – quando va male – delle persecuzioni sudanesi, della guerra in Somalia e dei campi di transito in Libia (in cui regna la regola della schiavitù, della rapina e dello stupro); e che – francamente – non è l’Europa che pensavamo quella i cui paesi membri erigono muri per difendersi dalla pretesa invasione, si chiudono in un revival di protezione sovranista, salvo tenersi buona gente come Erdogan. Lo stesso che, oltre ad aver ridotto il suo paese come abbiamo appena detto, si smarca dai paesi arabi sull’embargo al Qatar, accusato di sostenere l’ISIS.

Giovanni Bellini

Pittore